E’ una calda serata estiva al Teatro romano di Fiesole, sulle colline fiorentine quando Beppe Grillo, una delle figure più enigmatiche della storia politica italiana, tuona dal palco nel corso del suo ultimo spettacolo: «Il Movimento che abbiamo fatto forse non c’è più, dicono che forse ci siamo vaporizzati, forse è la parola giusta».
E, in effetti, se si guarda alla parabola del Movimento 5 Stelle, alla sua aggregazione e alla successiva vaporizzazione, si possono cogliere molti indizi di un processo di trasformazione politico-istituzionale che ha segnato la storia della politica italiana e, allargando lo sguardo, potrebbe incidere su quella europea. Grillo aveva fondato un movimento antipolitico, qualunquista, «né destra né sinistra», che aveva il compito principale la sostituzione delle élite politiche consunte dell’era berlusconiana.
Era il partito dell’anti-casta, del Vaffa, che attaccava con ferocia Berlusconi ma anche la sinistra tradizionale e moderata, che Grillo chiamava «sinistra fru fru». Alle elezioni del febbraio 2013, il Movimento aveva letteralmente svuotato il Pd, fino ad un mese prima del voto destinato alla vittoria, e questo risultato aveva costretto la destra berlusconiana ad allearsi con gli avversari della sinistra per dare vita ad un governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Prima si era cercata una intesa tra Pd e 5 Stelle, ma l’intransigenza di Grillo non aveva permesso di finalizzare un accordo politico nonostante i tentativi di officiare una alleanza anche attraverso la moral suasion del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Fu l’inizio di una trasformazione, a tratti ingestibile per le istituzioni, della politica italiana. Da un lato il Movimento 5 Stelle e dall’altro la nuova destra di Giorgia Meloni e Matteo Salvini: nel mezzo di questa tenaglia i partiti moderati di sinistra e destra che avrebbero pagato l’arrocco con una emorragia elettorale.
Il Movimento, che all’epoca credeva nella democrazia diretta, nei referendum ad ampio spettro e selezionava i candidati al Parlamento con delle votazioni sul proprio blog, aveva portato nelle istituzioni persone del tutto nuove ed estranee alla politica. Era l’apoteosi dei dilettanti. Grandissima parte di questi eletti si dissolverà in una o due legislature, ma alcuni di essi riusciranno ad entrare nel ceto politico professionale. Tra di essi spiccava un giovanissimo ventiseienne di Napoli che si chiamava Luigi Di Maio, rapido e dotato nel comprendere le dinamiche politiche, era riuscito a farsi scegliere da Grillo e Casaleggio come vice-presidente della Camera dei Deputati. Era Di Maio l’esponente del Movimento 5 Stelle considerato più affidabile nella legislatura 2013-2018, quello che veniva invitato alle ambasciate, quello circondato dai lobbisti, quello che parlava con i fondi di investimento esteri, e anche quello più futuribile come capo politico. Nel frattempo, per gestire centinaia di parlamentari inesperti i fondatori del Movimento avevano imposto un direttorio di cui facevano parte i «grillini» più capaci o mediatici, tra cui Luigi Di Maio. E sarà proprio il giovane vice-presidente della Camera ad essere il frontman della campagna elettorale del 2018, quella della promessa del reddito di cittadinanza e della straripante vittoria pentastellata con oltre il 32% dei consensi. L’ascesa di Movimento e Lega nelle urne aveva aperto la via al primo esecutivo populisti di un grande paese europeo, il cosiddetto governo giallo-verde, una volta fallito il secondo tentativo, da parte del Capo dello Stato Sergio Mattarella, di istituzionalizzare il Movimento attraverso una alleanza con il PD. Allora il «no» del Movimento era arrivato proprio per bocca di Luigi Di Maio, il quale reputava più semplice e nelle corde del movimento populista un accordo programmatico con Salvini, leader di una nuova Lega ora estesa su tutto il territorio, euroscettica e nazionalista.
Si componeva il grande momento «tecnopopulista» della politica italiana: nasceva il governo Movimento 5 Stelle — Lega, ma sotto la tutela della Presidenza della Repubblica. A Palazzo Chigi sarebbe andato un semi sconosciuto professore di diritto civile, iscritto da pochi mesi al Movimento, di nome Giuseppe Conte e al ministero dell’Economia un tecnico come Giovanni Tria. Nel corso delle trattative tra le forze politiche e il Presidente della Repubblica Mattarella, Di Maio arrivò addirittura a minacciare l’impeachment per il Capo dello Stato in quanto quest’ultimo aveva posto dei veti su nomi proposti per diventare ministri, come su quello di Paolo Savona all’economia, poiché considerati troppo euroscettici. Lo stesso Di Maio in questo braccio di ferro, ritenuto troppo giovane e poco qualificato per diventare primo ministro, si era dovuto accontentare di diventare un super-ministro del Lavoro e della Sviluppo Economico oltre che vice premier. Conte era una figura con un curriculum più robusto sul piano delle competenze, cattolico, inserito nell’establishment romano e vaticano attraverso un prestigioso studio legale, moderato ed estraneo agli eccessi della genesi del Movimento.
I due partiti nazional-populisti accettavano così un patto istituzionale, cedevano al compromesso con l’edificazione di un cordone sanitario voluto dalla Presidenza della Repubblica. E qui va ricordato che Movimento e Lega non erano quelli di oggi: il primo aveva predicato la necessità di un referendum sull’euro fino al 2017 e si scagliava contro l’austerity degli autocrati, la seconda descriveva Bruxelles come «una gabbia di matti» e, pur a tratti, suggeriva l’uscita dall’euro. Ma dalla prospettiva dell’establishment istituzionale, economico e finanziario, il Movimento 5 Stelle — dopo la morte del fondatore Gian Roberto Casaleggio e la ritirata di Beppe Grillo — era il ventre molle su cui operare per evitare sbandamenti euroscettici. D’altronde, cosa pensavano davvero i vertici del Movimento era difficile dirlo? In piazza Di Maio diceva di voler abolire la povertà col reddito di cittadinanza e di voler mandare un forte messaggio di contestazione a Bruxelles, ma a parte questo la visione restava vaga e nebulosa. Insomma, Di Maio era un comunicatore efficace, un tessitore politico, ma soprattutto si presentava come il perfetto esponente del populismo post-ideologico, al tempo stesso pronto a tutto per il successo elettorale e molto malleabile al governo. Questi elementi emergeranno dopo poco più di un anno di governo quando, nell’estate del 2019, nonostante un risultato alle elezioni europee non esaltante per il Movimento 5 Stelle e invece molto importante per la Lega, Di Maio e Conte decideranno all’ultimo di far votare la propria delegazione al Parlamento europeo, risultando decisiva in termini numerici, per la presidenza di Ursula von der Leyen. Il governo italiano otterrà in cambio la nomina di Paolo Gentiloni, già presidente del Consiglio nel 2017-2018 con il Pd, come Commissario all’economia della nuova Commissione. Si è trattato di un momento di svolta per la storia del Movimento 5 Stelle, sempre più vicino all’Unione Europea e sempre meno populista grazie alle scelte di Conte e Di Maio. Ma questa decisione peserà anche sull’immagine della Lega, percepita come il reale partito euroscettico dell’alleanza e visto come fattore di destabilizzazione della politica italiana dall’establishment. La decisione «europeista» e opportunista del Movimento aprirà la strada alla crisi del governo Conte 1, alla richiesta dei «pieni poteri» da parte di Salvini e alla mossa di Matteo Renzi di apertura del Pd ad un governo con il Movimento, oramai pienamente istituzionalizzato dopo il sostegno a Von der Leyen. Era il partito di Conte e Di Maio, e non più di Grillo e Casaleggio, ad essere ritenuto abbastanza affidabile da governare con il centrosinistra e a fungere da argine, pur momentaneo, alla destra nazionalista. A completare la tessitura penserà il Presidente della Repubblica: accordo Pd-5 Stelle per una nuova maggioranza e possibilità per Conte di restare presidente del Consiglio con una diversa maggioranza. Nel nuovo governo Di Maio viene promosso Ministro degli Esteri, un ruolo in genere riservato a politici esperti e ritenuti affidabili dalla classe dirigente italiana ed estera. Ma è forse il passaggio finale di quest’epoca a segnare ancor di più questa trasformazione. Quando nel mezzo dell’emergenza pandemica e dopo aver ottenuto un enorme finanziamento da Bruxelles con il NextGenerationEU, il governo Conte 2 viene messo in crisi da Renzi e una nuova crisi porta Mario Draghi alla presidenza del consiglio. Conte è sconfitto, ma Di Maio trova le risorse per sopravvivere all’ennesima crisi. Nel governo Draghi è confermato ministro degli esteri, divenendo il regista di una delle più grandi inversioni della storia della politica europea. Il giovane populista, antipolitico, euroscettico, fautore della democrazia diretta si ritrovava a capo della Farnesina con il più potente e rispettato tecnocrate d’Europa come l’ex governatore della BCE. L’ultimo Di Maio, quello che ha completato la sua trasformazione, è quello che viene addirittura apprezzato dall’alta burocrazia italiana ed europea. I diplomatici si dicono entusiasti di avere un ministro che è così malleabile e che porge tanta attenzione alle strutture tecniche. Più che una dote è forse un’ammissione di scarsa competenza e di poca capacità programmatica, ma ad ogni modo il trucco funziona e dona a Di Maio una immagine istituzionale. Quando si avvicinano le elezioni del 2022, il ministro degli Esteri, che nel frattempo è uscito dal Movimento 5 Stelle per dissapori con Giuseppe Conte, crea una propria lista alleata nientemeno che al PD, un tempo considerato il partito dell’establishment contro cui si scagliava.
A livello elettorale la parabola di Di Maio si chiuderà con una rovinosa sconfitta e la mancata rielezione al Parlamento. Ma i crediti accumulati con Draghi e con gli alti papaveri della Commissione Europea grazie alla propria malleabilità e alla capacità di riconvertirsi politicamente, apriranno le porte per un altro incarico, quello di Rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Golfo Persico. Cos’è a questo punto la carriera di Di Maio se non la perfetta sintesi di ciò che in Italia è avvenuto tra tecnocrati e populisti? Una storia circolare, che sembra riesumare le teorie degli storici dell’antichità classica, dove tutto parte della contestazione rabbiosa al governo tecnico di Monti e degli eurocrati, una carica politica che alimenta il populismo, l’antipolitica, l’euroscetticismo, e che finisce con il governo del più rispettato e potente tecnocrate europeo.
E’ una lezione che resta interessante se si guarda all’attuale scenario politico dopo le elezioni europee, dove in Italia vi è una completa istituzionalizzazione di populismo e nazionalismo dentro le linee rosse dell’ordine europeo ed atlantico, mentre la crisi di legittimazione delle vecchie élite politiche moderate investe completamente Francia e Germania con anni di ritardo rispetto all’Italia. In particolare il caso francese mostra, soprattutto attraverso la figura di Jordan Bardella, molti tratti che i politologi italiani hanno avuto l’occasione di esaminare.
Come Di Maio, Bardella è il volto presentabile del suo movimento, il comunicatore abile, quello che rompe con la tradizione estremista dei Le Pen, che parla nelle ambasciate, nelle università, nelle stanze ovattate dell’alta finanza, che vuole mostrarsi docile, malleabile, aperto alle istanze di ceti dirigenti che rassicura mostrando insieme novità e continuità col passato. Ma al tempo stesso, per la provenienza dallo stesso retroterra politico e culturale, Bardella mostra anche dei tratti del “melonismo”. Se durante i comizi è sfrontato, populista, nazionalista e si presenta come una creatura nuova del Rassemblement National, quando dialoga con i media internazionali tende a voler rassicurare gli interlocutori più qualificati, dunque nessuna Frexit, una politica economica assennata, nessuna caccia alle streghe verso banchieri, grandi industriali e alti funzionari.
Secondo questo schema, di cui Meloni e Di Maio sono per motivi diversi gli apripista, Bardella può mostrare sia di essere un vuoto da riempire con contenuti di terzi, ivi inclusi quelli di chi in apparenza viene disegnato come un avversario, sia di poter avviare una fase di istituzionalizzazione della destra, che significa in sostanza accettare vincoli esterni come le regole costitutive dell’UE e la politica NATO, per evitare che si diffonda il panico nell’élite francese e internazionale. Al contrario di Di Maio e Meloni egli però deve fare i conti con due fattori che i politici italiani non hanno scontato allo stesso modo. Il primo è la pesante eredità dei Le Pen, la radioattività presso l’elettorato moderato, anche di destra, che questo cognome rappresenta e che rende difficile accelerare il processo di ricentramento della destra come è avvenuto in Italia. Il secondo è un sistema elettorale ed istituzionale che rende più complicata la via per la presa del potere tra il contrappeso del Presidente della Repubblica e un legge elettorale a doppio turno che favorisce le coagulazioni elettorali di chi si aggrega per non far vincere l’avversario più temibile.
Riuscirà Bardella a rompere queste barriere? Forse egli ha qualche possibilità in più di Marine Le Pen, anche se è una missione difficile nel breve periodo. Tuttavia, ciò che è certo è che ci troviamo di fronte una genia di politici che non si può paragonare alla generazione precedente poiché essi sono stati allevati nell’era del tecnopopulismo e con scaltrezza hanno imparato a dosare la propaganda, la connessione con la realtà e il legame col territorio del paese profondo, e a districarsi, attraverso la ricerca di una collaborazione con la tecnocrazia nelle sue varie sfumature funzionali e ideologiche, nel complicato mondo delle alte sfere del potere politico, economico e amministrativo. E’ il segno di una fase nuova: il motore della circolazione delle élite si è rimesso in moto anche al centro dell’Europa, mentre il riassetto istituzionale che da questa propulsione scaturirà, in termini di potere concreto e non soltanto formale, sarà una delle questioni cruciali da seguire nei prossimi anni.