Mario Draghi: «una strategia industriale per l’Europa»
Di fronte agli Stati Uniti e alla Cina, «dovremo crescere più velocemente e meglio. E il modo principale per ottenere una crescita più rapida è aumentare la nostra produttività». Dal monastero di Yuste in Spagna — il ritiro dell'imperatore Carlo V — Mario Draghi ha tenuto un discorso chiave.
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Con il suo accordo e dopo la pubblicazione di altri interventi di Mario Draghi nella rivista, pubblichiamo la versione italiana del testo del suo intervento al monastero di San Jeronimo de Yuste, in Spagna, il 14 giugno 2024, in occasione del premio europeo Carlo V. Il testo originale in inglese può essere letto a questo link.
Sua Maestà.
Presidente del governo regionale dell’Estremadura.
Presidente dell’Assemblea dell’Estremadura.
Presidente del consiglio di amministrazione della Fundación Academia Europea e Iberoamericana de Yuste.
Ministro degli affari esteri, dell’Unione europea e della cooperazione.
Ministro dell’economia, del commercio e delle imprese.
Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea.
Ambasciatori.
Vicepresidente della Banca centrale europea.
Vescovo di Plasencia e frati della Comunità monastica.
Accademici.
Autorità.
Stimati ospiti e amici.
Vorrei iniziare ringraziando Sua Maestà il Re Felipe VI per questa cerimonia, insieme a tutti coloro che vi hanno contribuito. In particolare quest’ultimo momento è stato davvero commovente, vi ringrazio tutti: è una cerimonia fantastica. Spesso per indicare un’ospitalità straordinaria si parla di “ospitalità spagnola”. Ed è davvero così.
È un grande onore per me ricevere il Premio europeo Carlos V, in un luogo così ricco di storia. Questo monastero, in quanto ultima dimora di Carlo V, richiama la lunga e ricca storia dell’Europa, e insieme il plurisecolare processo di costruzione dell’unità europea.
Nel corso degli anni, il nostro continente è diventato più vecchio, più ricco e più vicino, con un mercato unico di 445 milioni di consumatori. Ma oggi ci troviamo di fronte a questioni fondamentali per il nostro futuro.
Man mano che le nostre società invecchiano, crescono anche le esigenze del nostro modello sociale. Al contempo, lasciatemelo dire in apertura di questo discorso, per noi europei il mantenimento di livelli elevati di protezione sociale e ridistribuzione è un punto non negoziabile.
Dobbiamo anche far fronte a esigenze nuove: adeguarci ai rapidi cambiamenti tecnologici, aumentare la capacità di difesa e realizzare la transizione verde.
Nel frattempo, il paradigma che finora ha sostenuto i nostri obiettivi condivisi va scomparendo. L’era del gas importato dalla Russia e del commercio mondiale aperto sta svanendo.
Per far fronte a tutti questi cambiamenti, dunque, avremo bisogno di crescere più velocemente e meglio. E la strada maestra per conseguire una crescita più rapida è aumentare la nostra produttività.
La crescita della produttività dell’Europa va rallentando da tempo, anzi da molto tempo. Dall’inizio degli anni 2000, il PIL pro capite corretto per i prezzi interni è inferiore di circa un terzo rispetto a quello degli Stati Uniti, e il 70% circa di questo divario è dovuto alla minore produttività.
La differenza nella crescita della produttività tra le due economie è dovuta in massima parte al settore tecnologico e più in generale alla digitalizzazione. Se escludessimo il settore tecnologico, la crescita della produttività dell’UE negli ultimi vent’anni sarebbe pari a quella degli USA.
Ma il divario potrebbe ampliarsi ulteriormente con il rapido sviluppo e con la diffusione dell’intelligenza artificiale. Circa il 70% dei modelli di intelligenza artificiale cosiddetti foundational è sviluppato negli Stati Uniti, e tre aziende statunitensi rappresentano da sole il 65% del mercato globale del cloud computing.
Per iniziare a colmare questo divario è necessaria una serie di interventi di policy.
Prima di tutto, dobbiamo ridurre il prezzo dell’energia. Gli utilizzatori industriali di energia in Europa si trovano attualmente in una condizione di grave svantaggio competitivo rispetto ai loro omologhi negli USA – e non solo negli USA – con prezzi dell’elettricità due o tre volte più alti.
Questo differenziale di prezzo è trainato principalmente dal nostro ritardo nell’installazione di nuova capacità di energia pulita e dalla mancanza di risorse naturali, così come dal fatto che, pur essendo l’Unione il più grande acquirente al mondo di gas naturale, il nostro potere di contrattazione collettiva resta limitato. Ma è anche causato da alcuni problemi fondamentali del nostro mercato interno dell’energia.
Soffriamo di investimenti infrastrutturali lenti e non ottimali, sul fronte sia delle energie rinnovabili che delle reti. Reti sottosviluppate si traducono nell’incapacità di soddisfare la domanda energetica anche in presenza di surplus in alcune parti dell’UE.
Le nostre regole di mercato non disaccoppiano del tutto il prezzo dell’energia rinnovabile e nucleare dai prezzi dei combustibili fossili, più elevati e volatili, il che impedisce alle industrie e alle famiglie di cogliere in bolletta tutti i benefici dell’energia pulita. Nel tempo, la tassazione dell’energia è diventata un’importante fonte di entrate di bilancio, contribuendo all’aumento dei prezzi al dettaglio.
A loro volta, prezzi elevati si traducono in minori investimenti in Europa: l’anno scorso, circa il 60% delle aziende europee ha indicato nei prezzi dell’energia un grave ostacolo agli investimenti, oltre 20 punti percentuali in più rispetto a quanto indicato dalle aziende statunitensi.
Gli alti prezzi dell’energia interferiscono anche con la digitalizzazione della produzione, poiché l’intelligenza artificiale è altamente energivora. L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che l’elettricità consumata dai data center raddoppierà a livello globale entro il 2026 – quindi, nel giro di due anni – per un ammontare approssimativamente pari all’intero fabbisogno energetico della Germania.
Una maggiore produttività, dunque, dipende dalla costruzione di un vero mercato europeo dell’energia.
In secondo luogo, dobbiamo ripensare l’ambiente dell’innovazione in Europa. In percentuale del PIL, le imprese europee spendono circa la metà di quelle statunitensi in ricerca e innovazione (R&I), il che si traduce in un deficit di investimenti pari a circa 270 miliardi di euro l’anno.
Anche il raccordo tra ricerca di base e commercializzazione delle idee è molto più debole. Tra i primi dieci cluster dell’innovazione a livello mondiale nemmeno uno è europeo e le nostre università faticano a trattenere i talenti migliori.
L’UE deve fare della ricerca e dell’innovazione una priorità collettiva. In un’agenda comune potrebbero rientrare comprendere un sostegno rafforzato alla ricerca fondamentale, incentrato sull’eccellenza accademica, una maggiore attenzione all’innovazione disruptive e una maggiore capacità di sostenere le start-up e aiutarle a crescere.
Dobbiamo anche creare le condizioni perché l’innovazione si diffonda più rapidamente nell’economia. I fattori chiave in questo caso sono due: consentire alle imprese europee di raggiungere una scala ottimale, mettendole in condizione di poter investire in nuove tecnologie, e riqualificare i lavoratori europei, affinché possano padroneggiare queste tecnologie.
La possibilità di raggiungere una scala adeguata presuppone l’eliminazione degli ultimi ostacoli all’attività transfrontaliera all’interno del mercato unico, in particolare quelli che ostacolano la diffusione digitale. Ad esempio, il cloud computing nella pubblica amministrazione deve essere inquadrato da un unico insieme di regole.
E le politiche sulla concorrenza devono facilitare la scala ponderando i criteri di innovazione e resilienza in sintonia con l’evoluzione del mercato e i contesti geopolitici, evitando contemporaneamente un’eccessiva concentrazione del mercato, che fa salire i prezzi al consumo e riduce la qualità del servizio.
Parallelamente, la riqualificazione della nostra forza lavoro richiederà il rafforzamento dei sistemi di istruzione e formazione, incoraggiando l’apprendimento degli adulti e facilitando l’ingresso di lavoratori altamente qualificati provenienti da paesi terzi.
L’esempio della Svezia è molto interessante. La produttività del settore tecnologico svedese – e anche la sua economia complessiva – è più del doppio della media dell’UE, il che dimostra che progresso tecnologico e un modello sociale forte sono non solo compatibili, ma anche auto-rafforzanti quando si concentrano sulla riqualificazione e sulle competenze.
Il finanziamento di queste varie esigenze di investimento sarà una sfida significativa e comporterà la necessità di ripensare il modo in cui impieghiamo i capitali sia pubblici che privati.
Rispetto agli Stati Uniti, non avere un bilancio federale ci pone in una condizione di svantaggio. Ad esempio, le attività di ricerca e innovazione finanziate con fondi pubblici rappresentano una percentuale del PIL sostanzialmente simile in entrambe le regioni, intorno allo 0,7-0,8%, ma negli Stati Uniti la stragrande maggioranza della spesa avviene a livello federale, garantendo che i fondi pubblici affluiscano in modo efficiente verso le priorità nazionali.
In Europa, invece, gli strumenti di finanziamento sono ripartiti tra l’UE e i livelli nazionali – la spesa per ricerca e innovazione è europea solo per un decimo –con poche tracce di coordinamento e definizione di priorità. Inoltre, il processo decisionale per i progetti comuni comporta in genere un iter legislativo lungo e laborioso, nel quale intervengono molteplici gli attori con potere di veto.
Al contempo, i successivi livelli di regolamentazione si sono tradotti in oneri per gli investimenti a lungo termine, come riferito dal 61% delle imprese dell’UE lo scorso anno.
Insomma, i margini di miglioramento sono notevoli, anche semplicemente a partire dalla definizione priorità più chiare, da una razionalizzazione della regolamentazione e da un miglior coordinamento tra i diversi strumenti di finanziamento.
Detto ciò, anche rendere più efficace la pubblica spesa non sarà di per sé sufficiente. La transizione verde e quella digitale comportano esigenze di finanziamento massicce che, vista la limitatezza dello spazio fiscale in Europa – sia a livello nazionale che, almeno finora, a livello di UE – dovranno essere soddisfatte principalmente dal settore privato.
Avremo quindi bisogno di attivare anche il risparmio privato su una scala senza precedenti, e ben al di là di quanto può offrire ad oggi il settore bancario. La via maestra per mobilitare i fondi necessari sarà approfondire i nostri mercati del capitale di rischio, del capitale azionario e delle obbligazioni.
E nei settori in cui gli investimenti pubblici hanno grandi moltiplicatori, come la spesa per le reti o in ricerca e innovazione, è probabile che la maggiore emissione di debito pubblico si finanzi da sola. Semplificare i progetti europei di interesse comune e ampliarne l’ambito di applicazione li renderebbe uno strumento efficace per aumentare gli investimenti in aree critiche.
Per quanto riguarda i finanziamenti comuni a livello europeo, sapete tutti come la penso, quindi non c’è bisogno di ribadirlo. Trarremmo enormi benefici da una qualche forma di finanziamento comune— ma non voglio ripetere oggi cose che ho detto molte volte in passato.
Il paradigma che in passato ci ha portato prosperità era congegnato per un mondo di stabilità geopolitica, e di conseguenza le considerazioni di sicurezza nazionale avevano un ruolo marginale nelle decisioni economiche. Ma le relazioni geopolitiche si stanno deteriorando.
Questo cambiamento richiede all’Europa di adottare un approccio fondamentalmente diverso alla sua capacità industriale in settori strategici come la difesa, lo spazio, i materiali critici e i componenti dei prodotti farmaceutici. Ci impone inoltre di ridurre le nostre dipendenze dai paesi di cui non possiamo più fidarci.
La prima cosa di cui abbiamo bisogno, quindi, è una valutazione comune dei rischi geopolitici che dobbiamo affrontare, condivisa tra gli Stati membri e in grado di guidare la nostra risposta. È un requisito non da poco, ma è all’origine di tutto.
Avremo poi bisogno di sviluppare una vera e propria “politica economica estera” – o, come si usa dire oggi, statecraft – che coordini gli accordi commerciali preferenziali e gli investimenti diretti con le nazioni ricche di risorse, la costituzione di scorte in specifiche aree critiche e la creazione di partenariati industriali per garantire la catena di approvvigionamento delle tecnologie chiave.
Per i settori strategici, le stesse misure che ho già descritto in relazione all’innovazione, alla scala e alle competenze saranno di particolare utilità. Ma poiché in alcuni di questi settori muoviamo da anni e anni di sottoinvestimento, occorrerà anche un approccio coordinato alla domanda.
Affinché le imprese incrementino gli investimenti e accrescano la capacità, l’Europa dovrà non solo aumentare il livello della domanda attraverso una spesa maggiore, ma anche garantire che questa spesa sia concentrata all’interno dei nostri confini e che sia aggregata a livello dell’UE.
Il modo più efficiente per generare questa domanda sarebbe tramite l’aumento della spesa comune europea. In assenza di un approccio centralizzato, però, molto si potrà ottenere con un più stretto coordinamento delle politiche in materia di appalti pubblici, e con l’applicazione di requisiti di contenuto locale più espliciti per merci e componenti prodotte nell’UE.
Questa concentrazione e aggregazione della domanda accrescerà anche l’efficacia della spesa pubblica, riducendo le duplicazioni e aumentando l’interoperabilità, in particolare per le attrezzature militari, e rifletterà le politiche oggi attuate dai nostri rivali geopolitici.
Nel paradigma che ci ha portato prosperità in passato, il commercio mondiale era governato da regole multilaterali. Ora però queste regole stanno diventando sempre meno vincolanti e le maggiori economie operano in modo sempre più unilaterale.
Non vogliamo diventare protezionisti in Europa, ma non possiamo essere passivi se le azioni degli altri minacciano la nostra prosperità. Anche le recenti decisioni degli Stati Uniti sull’imposizione di dazi alla Cina hanno implicazioni per la nostra economia, per il tramite del riorientamento delle esportazioni.
Per noi la sfida risiede nel fatto che, rispetto agli Stati Uniti, siamo più vulnerabili sia a un’eventuale inazione sul commercio, sia a ritorsioni se dovessimo agire. Il settore manifatturiero in Europa impiega un numero di persone pari a due volte e mezzo quello degli Stati Uniti. E più di un terzo del nostro PIL manifatturiero viene assorbito al di fuori dell’UE, rispetto a circa un quinto per gli Stati Uniti.
Ad ogni modo, ora ci troviamo di fronte anche a un’ondata di importazioni cinesi più economiche e talvolta più avanzate dal punto di vista tecnologico.
Si prevede che, al più tardi entro il 2030, la capacità produttiva annuale della Cina per il fotovoltaico solare sarà pari al doppio della domanda globale, e per le celle per batterie sarà almeno pari al livello della domanda globale.
Fintantoché questa notevole crescita dell’offerta è il risultato di autentici miglioramenti della produttività e dell’innovazione, allora è un bene per noi, è un bene per l’Europa. Tuttavia è ampiamente provato che parte dei progressi della Cina è dovuta ai considerevoli sussidi sui costi, al protezionismo commerciale e alla soppressione della domanda, e che questa stessa parte porterà a una riduzione dell’occupazione per le nostre economie.
Secondo una stima prudente, nel 2019 la Cina ha speso per la politica industriale circa tre volte più della Germania o della Francia in termini di quota del PIL, e, in termini di dollari corretti per il potere d’acquisto, ha speso circa dieci volte più dei due paesi messi insieme.
Nell’ambito di questa più ampia strategia industriale, la crescita dei salari cinesi nel tempo non ha tenuto il passo della crescita della produttività, mentre i tassi di risparmio rimangono elevati, lasciando i consumi delle famiglie solo al 44% del PIL.
La prima risposta europea al mutare delle regole del commercio mondiale dovrebbe essere quella di cercare di riparare quanto prima i danni subiti dall’ordine commerciale multilaterale, incoraggiando tutti i partner disponibili a impegnarsi nuovamente per un commercio fondato sulle regole. Come sapete, in un ambito come questo per ballare il tango bisogna essere in due, e non sono sicuro che gli altri vogliano ballare con noi.
La seconda risposta dovrebbe essere quella di incoraggiare gli investimenti diretti dall’ verso l’interno, in modo che i posti di lavoro nel settore manifatturiero rimangano in Europa.
La terza risposta dovrebbe consistere nel ricorso a sovvenzioni e dazi per compensare gli ingiusti vantaggi creati dalle politiche industriali e dalle svalutazioni dei tassi di cambio reali all’estero. Ma se ci imbarchiamo su questa strada, dobbiamo farlo nel contesto di un approccio generale che sia pragmatico, prudente e coerente.
L’uso di dazi e sovvenzioni dovrebbe essere fondato su considerazioni di principio e coerente con l’obiettivo di massimizzare la crescita della nostra produttività. Ciò significa distinguere la vera innovazione e il vero miglioramento della produttività all’estero dalla concorrenza sleale e dalla soppressione della domanda.
Bisognerà anche evitare di creare incentivi perversi in grado di danneggiare l’industria europea. I dazi devono quindi essere oggetto di una valutazione coerente lungo tutte le fasi del ciclo produttivo ed essere compatibili con gli incentivi, soprattutto per non indurre la delocalizzazione delle nostre industrie.
E naturalmente i dazi devono essere controbilanciati dagli interessi dei consumatori. È possibile che vi siano alcune industrie in cui i produttori nazionali sono ormai rimasti talmente indietro che rendere le importazioni più costose introducendo dazi non farebbe altro che zavorrare di ulteriori costi l’economia.
La relazione alla Presidente della Commissione europea delineerà una politica industriale europea in grado di realizzare gli obiettivi fondamentali dei cittadini europei.
Questa politica industriale mirerà principalmente ad accrescere la produttività, salvaguardando la competitività delle nostre industrie nel mondo e la concorrenza in Europa.
Mirerà a continuare la decarbonizzazione della nostra economia, in modo tale da portare a una riduzione dei prezzi dell’energia e a una maggiore sicurezza energetica.
Mirerà a riorientare la nostra economia in un mondo meno stabile, in particolare sviluppando una capacità industriale di difesa e una politica commerciale in grado di soddisfare le nostre esigenze geopolitiche, riducendo al contempo le dipendenze geopolitiche dai paesi su cui non possiamo più fare affidamento.
All’inizio di questo discorso ho detto che il mantenimento di livelli elevati di protezione sociale e ridistribuzione è un punto non negoziabile. Nel concludere, voglio ribadire che la lotta all’esclusione sociale sarà fondamentale non solo per preservare i valori di equità sociale della nostra Unione, ma anche per far sì che il nostro cammino verso una società più tecnologica si compia con successo.
La principale causa delle disuguaglianze di reddito è la disoccupazione. Storicamente, le politiche macroeconomiche – se ben concepite, naturalmente – hanno rappresentato la risposta.
Allo stato attuale, e più in generale, le politiche del mercato del lavoro e una risposta adeguata alla concorrenza sleale dall’estero sono ugualmente essenziali. E questa politica industriale, integrandosi con il nostro sistema di sicurezza sociale, rappresenterà il fondamento dell’inclusione sociale in questa epoca di profondi cambiamenti tecnologici.
Queste politiche richiederanno decisioni urgenti, perché il ritmo dei cambiamenti tecnologici e climatici sta accelerando e siamo sempre più esposti al deterioramento delle relazioni internazionali. Queste decisioni saranno anche importanti dal punto di vista politico e finanziario. E potrebbero anche richiedere un livello di cooperazione e coordinamento tra gli Stati membri dell’Unione europea ancora mai sperimentato.
Oggi questo passo sembra scoraggiante. Eppure confido che avremo la determinazione, la responsabilità e la solidarietà necessarie per affrontarlo – per difendere la nostra occupazione, il nostro clima, i nostri valori di equità e inclusione sociale, la nostra indipendenza.
Grazie.