Con la pubblicazione del rapporto Draghi, che Il Grand Continent ha accompagnato nelle varie lingue della rivista, l’Unione si prepara a entrare in una nuova fase. Da diverse settimane diamo la parola a ricercatori, commissari europei, economisti, ministri e industriali per reagire a una delle più ambiziose proposte di trasformazione dell’Unione. Se apprezzate il nostro lavoro e avete i mezzi per farlo, vi invitiamo ad abbonarvi a Il Grand Continent.
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Il rapporto Draghi disegna un quadro molto cupo sull’economia dell’Unione europea, in particolare sul divario tra la crescita della produttività dell’UE e degli USA. Al contempo, figure come Olivier Blanchard sostengono che gran parte di questo divario possa in realtà essere spiegato dalle dinamiche demografiche. Qual è la sua valutazione? È vero che l’economia europea è sull’orlo del baratro, come direbbe Draghi, o difende una posizione più sfumata?
Il modello economico europeo è in crisi.
E non necessariamente a causa delle misure di produttività contenute nel rapporto Draghi – se dividiamo la produttività per settore, vediamo che alcuni settori si stagliano rispetto ad altri.
Ad esempio, sono piuttosto scettica sui metodi che utilizziamo per misurare la produttività in settori come la finanza, le assicurazioni, la sanità ed i servizi professionali. Non credo che il settore finanziario degli Stati Uniti sia più produttivo di quello europeo. Tanto per cominciare, ci sarebbe da chiedersi se sia un settore “produttivo” strictu sensu. Un altro esempio: nel rapporto Draghi, il settore sanitario risulta più produttivo negli Stati Uniti che nell’Unione Europea, ma questo potrebbe semplicemente riflettere la finanziarizzazione e la privatizzazione negli USA. Il settore sanitario americano, rispetto alla mia esperienza, non è un settore più produttivo di quello europeo.
Quello che voglio dire è che, se si decompongono le misure di produttività settore per settore, ho qualche dubbio sul fatto che concentrarsi su questo aspetto ci permetta di arrivare al cuore del problema.
Detto questo, l’Europa sta attraversando una crisi del suo modello economico, nel senso che la sua posizione nel mondo sta cambiando in modo drammatico con le crescenti tensioni nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina, e con la guerra russa in Ucraina. Ma è una crisi dei mercati di esportazione, della debolezza della domanda interna, della posizione delle imprese europee nel mondo e della struttura industriale, non una crisi di produttività di settori specifici.
Cosa è cambiato in modo così radicale?
C’è una questione fondamentale su come l’Europa si sta posizionando.
Ogni volta che c’è una crisi, la Cina sembra più o meno attraversarla indenne in termini di PIL. Se guardiamo al periodo dal 2007 al 2010 e poi al 2020, la Cina dispone di meccanismi di stabilizzazione così ampi che le crisi globali non provocano un crollo della crescita.
L’Europa, ogni volta che viene colpita da una crisi, ha un’ammaccatura vera e propria. Gli Stati Uniti hanno un’ammaccatura più piccola e poi si riprendono rapidamente, una capacità che è legata alla politica fiscale. Il fatto che l’Unione Europea abbia regole fiscali rigorose significa che quando le crisi la colpiscono, ne esce più debole.
È molto probabile che shock e crisi si ripresentino. Non dico che domani ci sarà un’altra pandemia globale e una nuova guerra nel cuore dell’Europa, ma credo che ci troviamo in un mondo di emergenze che si sovrappongono. Quello che sappiamo è che ci saranno altri shock, e che c’è una richiesta concreta per capire come l’Europa possa imparare ad essere più preparata e a riprendersi meglio dagli shock.
Qual è la sua opinione sulla sfida demografica delineata nel rapporto Draghi?
Il problema demografico, così come viene posto nel rapporto Draghi, non tiene conto della migrazione.
Dobbiamo avere un dibattito onesto sulla migrazione. Se avessimo le giuste politiche economiche antifasciste – che affrontano la crisi del costo della vita invece di alimentare la retorica di estrema destra che da tutte le colpe i migranti – l’aumento dell’immigrazione non sarebbe un problema.
La crescente diffusione di posizioni estreme contro l’immigrazione potrebbe avere implicazioni molto importanti per la competitività dell’Europa, e potrebbe minare l’obiettivo della competitività in modi che possono, addirittura, creare danni economici piuttosto sostanziali. È un punto importante di cui non si parla abbastanza.
Tra le proposte del rapporto Draghi, la riduzione dei prezzi dell’energia è presentata come una priorità per garantire la competitività. Cosa ne pensate delle proposte del rapporto Draghi in questo ambito?
Il rapporto Draghi contiene un gran numero di osservazioni estremamente pertinenti e molte delle misure proposte, in particolare su come ridurre il divario dei prezzi dell’energia, sono in linea con il tipo di proposte che sosteniamo dal 2022 e che abbiamo presentato in un rapporto per il Parlamento europeo intitolato Closing the EU’s Inflation Governance Gap.
Tra queste figurano, ad esempio, la necessità di ridurre la volatilità dei prezzi nel settore energetico, l’esigenza di sfruttare l’approvvigionamento congiunto di gas e la necessità di sviluppare le scorte di minerali critici.
Il rapporto afferma che dobbiamo sganciare il prezzo dell’elettricità verde da quello dell’elettricità prodotta da combustibili fossili: questo è fondamentalmente il modello dell’“eccezione iberica”.
Infine, il rapporto sostiene che l’UE ha bisogno di pool di energie rinnovabili e di accordi di potere d’acquisto per stabilizzare i prezzi anche per il settore delle rinnovabili. Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per colmare il divario dei prezzi dell’energia e per prevenire l’inflazione causata dai prezzi nel settore energetico.
Al contempo, il rapporto Draghi è completamente agnostico sul sistema di quote di emissione (Emissions Trading System – ETS), anche se abbiamo visto che nella crisi energetica del 2022 i prezzi del carbonio sono esplosi insieme a quelli dei combustibili fossili. Di recente abbiamo pubblicato uno studio in cui dimostriamo che il salto del prezzo del carbonio al momento della transizione dall’ETS I all’ETS II, che entrerà in vigore nel 2027, potrebbe innescare un’ondata di carbonflation (un’inflazione provocata dall’aumento dei prezzi del carbonio). Si tratta di un rischio serio.
L’elezione di Trump dimostra che l’inflazione è un pericolo per la democrazia. Questo dovrebbe servire da monito all’Europa.
Dobbiamo anche pensare alla competitività dell’Europa rispetto agli Stati Uniti e alla Cina quando si parla di carbon pricing. Il rapporto Draghi sottolinea la competitività, ma tralascia questo punto. È estremamente improbabile che gli Stati Uniti adottino un sistema di quote di emissioni come quello dell’UE. È vero che la Cina ha guidato la rivoluzione della politica industriale verde e che sta applicando una politica di carbon pricing, ma con metodi che non minano la competitività e rischiano l’inflazione.
Per essere coerenti in termini di competitività delle esportazioni, i prezzi del carbonio hanno la stessa importanza dei prezzi del petrolio e del gas perché colpiscono esattamente gli stessi settori, come l’abbiamo dimostrato nel nostro studio. Gli stessi settori che sono stati colpiti dallo shock dei prezzi dell’energia subiranno probabilmente dei balzi di prezzo a causa del carbon pricing. Dobbiamo riflettere sulla coerenza del modello di transizione verde che l’UE sta portando avanti rispetto a quanto stanno facendo gli Stati Uniti e la Cina. Questo è diventato ancora più urgente dopo la rielezione di Trump.
Questa assenza di riflessione sulle tensioni tra la tariffazione del carbonio (carbon pricing) e la politica industriale verde è, a mio avviso, una grande lacuna nel rapporto Draghi. Capisco perché non voglia affrontare l’argomento, ma se si tratta di una nuova strategia per far progredire la crescita verde. Ometterla completamente ci fa correre il rischio di una grave incoerenza.
Concorda sul fatto che ci troviamo di fronte ad un problema strutturale, in cui la relativa scarsità di fonti energetiche in Europa significa che probabilmente i prezzi dell’energia saranno più alti e più volatili di quelli della Cina e degli Stati Uniti, anche con interventi politici ottimali?
Non sono sicura che le risorse energetiche della Cina siano migliori di quelle europee. La Cina non dispone di molti combustibili fossili. In effetti, uno dei motivi, del tutto sottovalutato, per cui la Cina ha puntato così tanto sulle energie rinnovabili è che già alla fine degli anni Ottanta, inizio degli anni Novanta, alcune analisi suggerivano che la Cina non sarebbe mai stata in grado di raggiungere il livello di PIL pro capite degli Stati Uniti negli anni Settanta con le risorse mondiali di combustibili fossili, e quindi certamente in nessun caso con le risorse nazionali cinesi di combustibili fossili.
La mancanza di risorse nazionali di combustibili fossili è stato uno dei principali fattori geopolitici della rivoluzione nelle rinnovabili in Cina.
Con l’Europa che si allontana dal gas russo, la Cina può contare molto di più su Mosca…
Le relazioni tra Cina e Russia possono sembrare un po’ più rosee rispetto a qualche anno fa, ma sono anche offuscate da tensioni e paure di fondo. La scissione sino-sovietica è stata una minaccia esistenziale per la RPC, e i cinesi se ne ricordano: non vogliono più dipendere dalla Russia.
Fondamentalmente, il Paese si trova in una posizione molto diversa rispetto agli Stati Uniti, che sono diventati il più grande esportatore di petrolio e gas del mondo. Se confrontiamo l’UE con gli Stati Uniti, allora sì, l’Europa si trova in una posizione fondamentalmente peggiore in termini di dotazioni energetiche.
C’è un problema strutturale per quanto riguarda l’andamento dei prezzi dell’energia, ma la sfida della volatilità dei prezzi può benissimo essere tenuta sotto controllo con le giuste istituzioni. Non mi sembra che l’Europa abbia uno svantaggio competitivo tale da dover eliminare tutta la produzione ad alta intensità energetica. Si tratta in realtà di una questione di ambizione in termini di politica industriale per la realizzazione delle energie rinnovabili, la trasformazione del sistema energetico e le innovazioni verso le tecnologie verdi.
In Germania ci siamo concentrati troppo sulla chiusura delle vecchie fonti energetiche piuttosto che sulla costruzione di nuove fonti, cosa che ci avrebbe permesso di rendere quest’ultime così economiche che quelle vecchie sarebbero diventate semplicemente superflue. La Germania ha investito nelle energie rinnovabili, ma avrebbe potuto investire ancora di più quando i tassi di interesse erano negativi.
Abbiamo bisogno di un’iniziativa di investimento per le energie rinnovabili in Europa anche perché sappiamo che le energie rinnovabili sono più economiche dei combustibili fossili. In realtà, esiste uno scenario nel quale gli Stati Uniti rimangono legati ai combustibili fossili perché hanno un’importante industria petrolifera che difende i propri interessi, e che sarà rafforzata in maniera significativa dal governo Trump “drill baby drill”. L’Europa, in linea di principio, non ha lo stesso livello di lobbying delle grandi compagnie petrolifere. Senza questo ostacolo politico, potrebbe muoversi in modo più aggressivo verso le energie rinnovabili e, poiché quest’ultime sono più economiche dei combustibili fossili, questo svantaggio strutturale potrebbe trasformarsi in un vantaggio a lungo termine. Non succederà domani, ma è possibile. Richiede un cambiamento delle regole fiscali ed una reale ambizione e coordinamento a livello europeo. Ecco perché il rapporto Draghi è un passo nella giusta direzione.
A Washington c’è un consenso bipartisan sull’imposizione di tariffe più alte, non per rimediare agli squilibri commerciali legati al carbonio in particolare, ma per aumentare la competitività degli Stati Uniti. È una direzione inevitabile?
Il rilancio del protezionismo attraverso le tariffe è basato su un consenso bipartisan. La differenza tra Trump e Biden in questo senso non è tanto di natura ma piuttosto di livello.
La traiettoria è la stessa di quella del primo mandato di Trump, ma ora promette tariffe del 10 al 20% su tutto. Naturalmente non sappiamo cosa farà alla fine, ma la guerra commerciale è all’ordine del giorno.
Nel rapporto Draghi sembra esserci una mossa significativa, da un lato, a favore della politica industriale, senza che sia necessariamente molto chiaro cosa significhi. Dall’altro, c’è una sorta di ritorno ad una visione più classica della politica della concorrenza. Una contraddizione?
Questo è solo uno trai i tanti esempi che possiamo trovare nel rapporto. Credo che questo si spieghi dal fatto che, in generale, il rapporto Draghi non è stato pensato in modo sistemico.
Ad esempio, parla a lungo dei prezzi dell’energia, ma non menziona mai l’inflazione. L’unica volta che ne parla è quando dice che possiamo avere questo livello di spesa fiscale del 4,5-5% del PIL senza incorrere in vincoli di capacità macroeconomica. Si tratta di una concezione macroeconomica molto classica dell’utilizzo della capacità come vincolo all’inflazione.
In tempi di guerra, le economie con un alto livello di investimenti possono incorrere in strettoie in settori specifici molto prima di avere un problema di utilizzo della capacità, e queste strettoie possono far salire i prezzi in modi che possono essere inflazionistici. Una guerra totale contro il cambiamento climatico può incorrere nello stesso problema. Quindi, se investiamo nella misura proposta giustamente da Draghi, il problema delle strettoie si ripresenterà, soprattutto in un mondo di deglobalizzazione.
Nel mondo “in pezzi” in cui viviamo, dove le emergenze si accavallano, gli shock continueranno a moltiplicarsi. È evidente che è necessario ridurre il costo del capitale, come giustamente sottolineato da Draghi, sia dal punto di vista della transizione verde che da quello della competitività. Ma se dobbiamo fare affidamento sull’aumento dei tassi di interesse ogni volta che c’è uno shock dei prezzi, allora ci stiamo affidando ad una politica di inflazione, che rende più costoso il costo del capitale. Ed è probabile che si verifichino delle ondate inflazionistiche.
In realtà, i nostri margini di manovra sono molto più ampi. Molte delle idee sono già sul tavolo, come ho cercato di illustrare con l’esempio dei prezzi dell’energia. Rendere i prezzi dell’energia più stabili grazie alla concorrenza significa, in ultima analisi, renderli più stabili anche in termini di rischi di inflazione. Abbiamo i mezzi per sviluppare misure di salvaguardia contro l’inflazione nel modo in cui l’Unione conduce la sua politica industriale, al fine di evitare episodi inflazionistici e quindi aumenti dei tassi di interesse, che possono essere un fattore importante di indebolimento della competitività.
La Cina non ha avuto inflazione. Mentre il resto del mondo ha aumentato i tassi di interesse in modo aggressivo, la Cina ha abbassato i suoi tassi. Il paese si trova ad affrontare tutta una serie di sfide di politica economica diverse, ma in termini di competitività del costo del capitale, questo è un movimento opposto.
È per questo motivo che secondo me, un approccio più sistemico potrebbe evitare le trappole della competitività che rischiamo se ci affidiamo a un approccio isolato come lo vedo nel rapporto Draghi.
Uno degli aspetti più visibili del rapporto Draghi, in parte perché criticato in Germania, è stata la sua richiesta di lanciare una grande corsa agli investimenti finanziata a livello europeo. Cosa ne pensa di questa dimensione? Quanto è probabile che si assista a questo tipo di mutualizzazione fiscale europea?
Sono d’accordo con la sua proposta. È un problema che si ripropone da quando è scoppiata la crisi dell’euro. Il fatto di non avere questo tipo di spazio fiscale a livello europeo è una delle ragioni per cui, in questi momenti di crisi globale, vediamo questi cali della crescita europea rispetto a quella degli Paesi.
Per quanto riguarda le dinamiche politiche, ritengo che la Germania si muoverà a livello europeo solo dopo essersi mossa a livello nazionale. Lo abbiamo visto molto chiaramente durante la crisi energetica. La Germania alla fine ha attuato i freni ai prezzi dell’energia a livello nazionale, e solo dopo ha accettato un tetto massimo per il prezzo del gas a livello europeo. Penso che lo stesso tipo di dinamica si verificherà con le regole fiscali. La Germania è la grande economia che ha registrato i risultati peggiori in due anni di recessione. Non bisogna essere un economista eterodosso per pensare che in una situazione del genere non serve un freno al debito, ma una spesa fiscale su larga scala.
Durante la crisi dell’euro, si è sostenuto che la Germania avesse in qualche modo beneficiato di questa stretta fiscale e che ne fosse uscita vincitrice imponendo il suo conservatorismo fiscale al resto dell’UE. Non dico necessariamente che sia così, ma l’argomentazione era valida. Ma oggi la Germania sta imponendo la stessa logica alla propria economia in un modo che è davvero dannoso per la sua competitività, per la stabilità democratica e per il necessario rinnovamento del suo modello economico.
Finché la Germania sarà disposta a fare questo alla propria economia, nonostante gli enormi costi legati a questa decisione, è improbabile che sostenga una capacità fiscale comune a livello europeo, proprio per evitare di imporre lo stesso tipo di costi agli altri Paesi europei.
La condizione necessaria è che la Germania riformi internamente il freno al debito. Speriamo che alla fine si decida a fare una riforma significativa anche a livello europeo, che ci dia il tipo di spazio fiscale di cui abbiamo bisogno.