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La vittoria di Donald Trump è netta. Il 20 gennaio tornerà alla Casa Bianca. Come deve reagire l’Europa?
Donald Trump non solo ha vinto le elezioni, ma anche il voto popolare; ed i Repubblicani hanno ottenuto il controllo del Senato e potenzialmente della Camera. Se questi dati saranno confermati, sarà in grado di governare con pieni poteri, a differenza del 2016.
Donald Trump ha una visione piuttosto brutale del potere, ma incarna un vero tipo di leadership – che ci piaccia o meno. Kamala Harris non è riuscita ad incarnare questa espressione davanti al popolo americano.
Un’altra coincidenza è che gli Stati Uniti stanno cambiando il loro presidente – e l’intera architettura istituzionale democratica che lo accompagna – quasi nello stesso momento in cui le istituzioni europee stanno cambiando le loro, ambedue per i prossimi cinque anni. La conseguenza è semplice: in Europa dobbiamo adattarci molto rapidamente a questa nuova situazione.
Ma dobbiamo anche essere onesti.Durante la campagna elettorale e fino a poco tempo fa, la maggior parte delle persone con cui ho parlato nelle istituzioni europee scommetteva su una vittoria di Kamala Harris e dei Democratici; nella Commissione europea, nel Parlamento, nel Consiglio e persino in molte capitali. Questa era l’opinione mainstream.
Non era anche questa la Sua lettura della situazione?
Personalmente non ne ero convinto. Ma, al tempo stesso, non ero più in carica.
Il rinnovo del nostro ciclo istituzionale era stato concepito basandosi su una prospettiva di continuità. La situazione è completamente diversa: stiamo entrando in un periodo di fratture.
L’Unione è pronta a navigare in questo mondo di fratture?
No, francamente non credo che le nostre istituzioni si fossero preparate ad un successo così netto di Donald Trump, che potrebbe potenzialmente destabilizzare l’Europa, le nostre istituzioni, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione.
La prima domanda da porsi – e non sta a me rispondere, perché spetta solo ai legislatori farlo – è se l’architettura delle nostre istituzioni consentirà loro di far fronte ad un’amministrazione americana pienamente operativa e determinata ad ingaggiare lotte di potere, anche con l’Unione.
Donald Trump ha una visione un po’ caricaturale dell’Europa. Durante la sua campagna elettorale ha trattato l’UE come una “mini-Cina”. Ritiene, a torto, che l’Europa non sia un alleato degli Stati Uniti affidabile. Ritiene che stiamo sfruttando la potenza americana, senza ricambiare abbastanza sia in termini di sostegno militare, sia di architettura di sicurezza, considerando quest’ultima come non sufficientemente retribuita. In questo senso, ha una visione piuttosto negativa e transattiva delle relazioni con il nostro continente.
Come interpreta la sua visione del mondo?
Ha un approccio fondamentalmente transazionale, che ovviamente deploro, ma se mettiamo in prospettiva tutti questi elementi, si presagisce un cambiamento potenzialmente radicale della posizione dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti.
Ancora una volta, la domanda sarà: chi metteremo in prima linea per gestire questa relazione con questa nuova dinamica? Donald Trump non vede le istituzioni europee nello stesso modo in cui le vedeva l’amministrazione democratica. Per lui, in Europa c’è solo una persona di cui ci si può fidare: Viktor Orbán.
Di recente, lo ha incontrato a Budapest.
Sono andato a trovare Viktor Orbán tre settimane fa e abbiamo avuto un colloquio individuale di quasi due ore. Abbiamo discusso di diverse questioni, perché l’Europa è composta da 27 Stati membri e quando si è interessati all’Europa, bisogna parlare con tutti, anche se non sempre si è d’accordo con le posizioni degli altri.
Ha discusso con Orbán della possibilità di una vittoria di Trump?
Sì, abbiamo discusso di questa possibilità, e molto francamente. Mi ha detto molto chiaramente di ritenere che, secondo il presidente Trump, sarebbe un interlocutore europeo privilegiato. E che dovremmo aspettarci che, per l’Europa, molte cose passeranno da lui d’ora in poi.
È probabile che questa diventi una realtà a cui dobbiamo prepararci semplicemente perché, che ci piaccia o no, è probabile che sia così: Orbán sarà ora una porta d’accesso alla Casa Bianca per gli europei.
Non è forse questa una narrazione proposta da Orbán? Potrebbe sembrare sorprendente che il primo ministro di un Paese relativamente marginale diventi improvvisamente l’unica persona di riferimento per l’amministrazione di Washington – piuttosto che i leader delle istituzioni europee…
Ma è una realtà a cui dobbiamo essere preparati. Finora, molti Stati membri hanno evitato le riunioni a Budapest anche se l’Ungheria detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea. Ma al Consiglio di questa settimana, a parte Pedro Sánchez, che ovviamente non è venuto per affrontare la tragedia nel suo Paese, non ci sarà un solo capo di Stato assente: saranno tutti presenti. Questa nuova dimensione è perfettamente integrata. Ciò non significa, ancora una volta, che il rapporto con il presidente Trump passerà esclusivamente attraverso Orbán. Altri leader potranno inserirsi in questo rapporto: il Presidente francese, il Cancelliere tedesco, ma possiamo anche pensare al primo ministro slovacco Fico, a Giorgia Meloni o a Wilders nei Paesi Bassi.
È difficile immaginare come la Presidenza della Commissione possa accettare uno scenario del genere senza ingaggiare una lotta di potere…
Sto semplicemente dicendo che, da un punto di vista politico, la prima chiamata, se Donald Trump vorrà parlare di Europa, sarà destinata ad Orbán . Può essere una sorpresa, ma sta a noi adattarci alle nuove realtà del mondo. Sappiamo che le relazioni tra la Commissione e l’amministrazione Biden erano molto fluide e molto strette. Sappiamo della forte relazione tra Björn Seibert, direttore di Gabinetto della presidente von der Leyen, e Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Joe Biden. Avevano un profondo rapporto di collaborazione, soprattutto durante le crisi che abbiamo attraversato. Ma i Democratici non ci saranno più. E poi sappiamo che a Trump piace cambiare tutto, stravolgere tutto. Anche i metodi cambieranno e, poiché dovremo continuare a discutere ed intrattenere relazioni fluide con gli Stati Uniti, dovremo adattarci a questa nuova situazione.
Pensa che una guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa sia inevitabile?
Prima di parlare di una guerra commerciale, dobbiamo tenere conto di ciò che è stato detto durante la campagna elettorale. È importante ascoltare queste proposte e prepararsi ad affrontarle, continuando comunque a sperare che una guerra commerciale possa essere evitata, perché non serve a nessuno.
L’Unione sarà in grado di organizzarsi per essere forte, con una vera leadership. Dobbiamo sviluppare un equilibrio di potere che sia a nostro favore. Conosciamo bene l’approccio transazionale di Donald Trump e dobbiamo agire nello stesso modo. Questo è un elemento essenziale della logica transazionale. Il Presidente Trump rispetta solo una cosa: le prove di forza.
La vittoria di Trump rende più probabile l’attuazione del rapporto Draghi?
Mario Draghi descrive tutte le nostre debolezze e tutto ciò che deve essere fatto per accelerare le transizioni che stiamo attraversando ed aumentare la competitività dell’Unione, che è, in particolare, in ritardo rispetto agli Stati Uniti. Ma per aumentare la competitività servono risorse, in altre parole finanziamenti. Non c’è altra soluzione – che ci piaccia o meno – se non quella di accedere a finanziamenti pubblico-privati.
Gli investimenti pubblici possono provenire da risorse proprie o dal bilancio. Ma dobbiamo superare le nostre illusioni. Tutti sanno che le risorse proprie o il bilancio europeo non ci permetteranno mai di generare i volumi raccomandati dal rapporto Draghi. Abbiamo quindi bisogno di una seconda componente, che è ovviamente “the elephant in the room”: il debito comune.
Per poter realizzare l’ambizioso progetto del rapporto Draghi, non vedo altra soluzione che avere accesso ad un debito comune che ci permetta di liberare delle risorse immediatamente.
Non possiamo aspettare dieci anni. Ma è possibile: sono in una buona posizione per saperlo, perché all’epoca del Covid abbiamo sostenuto questa soluzione con Paolo Gentiloni, prima che il presidente Macron e la cancelliera Merkel mettersi a disposizione del progetto tutto il loro peso politico per convincere tutti gli Stati membri della necessità di creare questo debito comune. Ci sono riusciti. Dobbiamo ritrovare questo tipo di leadership politica, senza dubbio in tempi brevi.
Dal 2020, una cosa è chiaramente cambiata: sia la Francia che la Germania sono politicamente indebolite – chi potrebbe svolgere questo ruolo in Europa ora?
Di fronte ad una minaccia esistenziale – e siamo ancora una volta di fronte a questa situazione in Europa – l’unico modo per continuare ad andare avanti è di farlo insieme. E questo richiede una leadership forte. È di questo che l’Europa ha bisogno .
Non sta a me dire chi debba esercitare questa leadership, ma so che è così che funzionano le cose. Senza leadership, non saremmo mai stati in grado di sviluppare semiconduttori, vaccini, aumentare le nostre capacità di difesa o attuare il piano di ripresa.
L’Ucraina può ancora vincere la guerra dopo l’elezione di Donald Trump?
L’unica soluzione all’inqualificabile aggressione di Vladimir Putin contro il territorio ucraino è un forte sostegno a Kiev. Questo sostegno è composto da tre pilastri fondamentali: il sostegno militare, ovviamente, poi il sostegno finanziario ed infine il sostegno umanitario per i milioni di rifugiati che hanno dovuto fuggire dal Paese.
Su questi tre fronti, Stati Uniti ed Europa hanno speso delle cifre praticamente uguali. Per questo motivo, il sostegno è stato ripartito in maniera equa. Ma dobbiamo essere onesti: l’usura è palpabile, ed era palpabile anche prima delle elezioni negli Stati Uniti, sia tra i Democratici che tra i Repubblicani. Una parte dell’opinione pubblica comincia a mostrare un certo livello di stanchezza, anche tra gli Stati più importanti dell’Unione. Donald Trump ha annunciato di voler ridurre il suo sostegno all’Ucraina. Vedremo. Perché spesso c’è un divario tra le intenzioni e la realtà. La domanda che si porrà molto rapidamente agli europei – e alla quale non ho una risposta – è la seguente: se il sostegno americano dovesse diminuire – cosa che ovviamente non desidero che accada – cosa potremmo fare e cosa vorremmo fare? Quale sarebbe la risposta europea? Questa è la domanda centrale a cui dovremo rispondere.
E qual è la risposta?
È chiaro che se ne dovrà discutere. Queste discussioni dovranno svolgersi con una leadership necessaria a livello dei 27 Stati membri.
Ciò significa che dovremo mobilitare tutti. Con l’elezione di Donald Trump, dovremo rafforzare ulteriormente questa capacità per mantenere l’unità dell’Unione. Questo diventa un elemento cruciale, soprattutto nel caso in cui l’Europa fosse costretta a prendere una decisione rapida sulla posizione da adottare in risposta ad un sostegno in calo degli Stati Uniti.
Comprende la preoccupazione del presidente Zelensky?
Sì, ed è basata su due aspetti. Le consegne di armi che sono state promesse dagli Stati membri devono ovviamente aumentare. Inoltre, è fondamentale che l’Europa aumenti la propria capacità produttiva in tutti i settori, non solo per se stessa ma anche per i suoi alleati. Ripeto: l’Europa è davvero con le spalle al muro. È essenziale mantenere un forte sostegno ed una presenza significativa, perché l’Ucraina fa parte del nostro continente. Ci siamo impegnati molto, non è il momento di allentare la pressione.
Viste le posizioni annunciate dal Presidente Trump durante la campagna elettorale, non è escluso che anche prima del 20 gennaio 2025, data del suo insediamento, vengano prese iniziative per ridurre il sostegno americano all’Ucraina. Dobbiamo essere preparati.
Cosa possono fare gli europei se Trump decide di chiamare Putin, e poi Zelensky, per proporre un trattato di pace sotto pressione, senza consultarci?
Il fatto che Lei ponga questa domanda dimostra che questo scenario non è irrealistico.
Coloro i quali hanno delle responsabilità oggi – e non è più il mio caso – devono essere preparati a questa situazione. Quello che i cittadini europei possono aspettarsi è che le istituzioni dell’Unione comincino a formulare una risposta nel nostro interesse comune.
I francesi parlano di “autonomia strategica” (termine coniato da Jean-Jacques Servan-Schreiber) almeno dagli anni Sessanta: non crede che se n’è parlato quasi troppo per essere davvero credibili?
A volte quelli che ne parlano di più sono anche quelli che lo fanno di più. Abbiamo fatto enormi progressi sull’idea di autonomia strategica europea. Ad esempio, la creazione di una costellazione satellitare sovrana, come IRIS², per fornire una connessione a Internet alle nostre forze armate e, più in generale, all’intero continente, è un risultato concreto.
All’inizio non c’era un budget destinato a questo scopo. Ma abbiamo accettato questa sfida con la mia squadra. Siamo riusciti anche a sviluppare la nostra autonomia strategica nella produzione di vaccini, anche se inizialmente non avevamo nessuna competenza in questo settore. Nel giro di una decina di mesi siamo diventati i leader mondiali, dimostrando la nostra capacità di rispondere con un’autonomia medica strategica per i vaccini anti Covid-19. Allo stesso modo, il fatto che oggi abbiamo 67 progetti per la realizzazione di impianti di semiconduttori in Europa, laddove prima non ce n’erano, è merito degli sforzi compiuti nell’ambito dell’European Chips Act. Queste non sono solo delle parole: sono dei fatti.
Siamo anche riusciti ad attuare cinque pacchetti normativi per organizzare uno spazio informativo e digitale che protegga i nostri valori, i nostri cittadini, i nostri figli e le nostre imprese. Attraverso il DGA, il DSA, il DMA, il Data Act e l’I-Act, abbiamo lavorato per garantire la nostra autonomia strategica. In termini di difesa, pur rimanendo dipendenti dalla NATO e dagli americani, abbiamo aumentato la nostra capacità di produzione di munizioni da 500.000 proiettili all’anno a oltre 2 milioni. Tutto questo è stato possibile perché abbiamo lavorato insieme al rafforzamento della nostra autonomia strategica, cosa che è, oggi come oggi, un’importante garanzia di credibilità, soprattutto nei confronti della NATO.
Tutto questo è sufficiente ora che la Russia è entrata in un’economia di guerra e produce più di 3 milioni di proiettili?
Dobbiamo continuare a mantenere lo slancio. È come andare in bicicletta: se si smette di pedalare, si cade. Non dobbiamo fermarci per ridiscutere tutto inutilmente, né per redigere l’ennesimo “libro bianco”, “libro grigio” o “libro verde”. Dobbiamo accelerare sulle iniziative già in atto.
Durante il suo discorso della vittoria, Trump ha ringraziato Elon Musk definendolo un “super genio”, aggiungendo “dobbiamo proteggere i nostri super geni”. Cosa ne pensa?
Il fatto che Elon Musk sia un grande imprenditore è ovvio e sarebbe assurdo non riconoscerlo.
Un mea culpa?
Assolutamente no. Ho lavorato con tutte le piattaforme, che si tratti di Meta, Google, TikTok, Temu o X. A volte è necessario ricordare che certi messaggi, anche se inviati negli Stati Uniti o altrove, possono avere un impatto anche in Europa, dove vigono le nostre normative.
Per esempio, prima della discussione tra Donald Trump ed Elon Musk, ho ritenuto necessario effettuare degli stress test normativi oltre a degli stress test tecnici: non si tratta di controllare la parola perché la parola è libera in Francia, in Europa e negli Stati Uniti. Il DSA non regolamenta la parola in sé, ma garantisce che i messaggi diffusi in Europa non vengano amplificati al punto da creare uno tsunami di fake news o altre ondate di affermazioni condannabili in conformità alle nostre leggi.
Era il Suo ruolo quello di scontrarsi pubblicamente con Elon Musk?
Non mi sono mai scontrato con nessuno. Il mio ruolo era quello di educare affinché tutte le piattaforme regolamentate in Europa potessero prepararsi ad adempiere ai loro obblighi con cognizione di causa.
Il mio ruolo era quello di discutere la questione, se necessario, con tutti gli attori prima di applicare la legge. Sono convinto che i miei successori continueranno su questa strada.