Il rapporto di Mario Draghi sul futuro della competitività europea presenta, tra i tanti, il pregio di proporsi come una “ricetta” complessiva e coerente per affrontare i nodi chiave che imbrigliano la crescita dell’Unione e, con essa, la sua tenuta economica, sociopolitica, ma anche sotto il profilo della difesa e della sicurezza. I segnali d’allarme, d’altronde, non mancano. Risuonano da tempo regolarmente ad ogni elezione politica, sia essa nazionale o locale, negli Stati membri con il continuo rafforzamento dei partiti antisistema laddove non apertamente contrari al progetto di integrazione europea. Riecheggiano in modo sempre più sinistro nelle crisi che infuriano alle porte dell’Europa e nel Mediterraneo. Sciogliere tali nodi – divenuti ormai strutturali – appare quindi improcrastinabile, almeno quanto la necessità di individuare una strategia condivisa tra i 27 Stati membri per ridare slancio all’Unione e dotarla di strumenti adatti alla navigazione in un mare sempre più insidioso.

Nel metodo, l’approccio “modulare” e pragmatico del documento è in questo senso un’ottima premessa. Esso consente, infatti, di delineare una sorta di menù al quale attingere per specifici interventi non necessariamente vincolati gli uni agli altri, evitando di entrare in una logica del “tutto o niente” che ne indebolirebbe fortemente le reali prospettive di applicazione. Il focus sulla questione della pianificazione dei finanziamenti risponde a questa esigenza, senza tuttavia nascondere gli ostacoli che gli interventi proposti sono destinati ad incontrare dal punto di vista politico. Si tratta di un primo, necessario passo per un ragionevole avvicinamento a più ambiziosi obiettivi comuni. Una strategia che non potrà che essere graduale e incrementale e dovrà procedere caso per caso, utilizzando in modo coordinato tutti gli strumenti che possono favorire l’emergere delle cointeressenze tra gli Stati membri. Tra questi, in particolare, il Servizio Europeo di Azione Esterna (SEAE), il Comitato Politico e di Sicurezza (COPS), il Comitato Militare (EUMC) ed i coordinamenti delle forze di intelligence e di sicurezza.  

In questo contesto, il lavoro di Draghi appare opportunamente concreto e dettato da un condivisibile senso di urgenza, in linea con l’entità delle sfide che l’Europa si trova ad affrontare e muove da una triplice consapevolezza di fondo che riguarda: 

  • la radicalità dei cambiamenti imposti dal deteriorato quadro economico e di sicurezza internazionale; 
  • il carattere irrealistico di ogni ipotesi politica di riformare i Trattati in tempi brevi; 
  • il costo, potenzialmente esiziale per l’Unione, dell’inazione.

Gli ultimi quindici anni di continue crisi in Europa hanno evidenziato quanto sia imprescindibile realizzare una diagnosi condivisa della situazione e delle cause dei problemi, per individuare soluzioni efficaci. L’Europa troppo a lungo ha guardato al proprio interno, senza dare il giusto peso a ciò che accadeva nel resto del mondo, mentre i costi della frammentazione si facevano sempre più evidenti dinanzi alle accelerazioni del contesto globale. La vicenda interna all’Unione si svolge oggi sullo sfondo di una congiuntura globale di straordinaria complessità. Uno scenario in rapida e continua evoluzione che pone in discussione i valori essenziali che sono alla base del progetto europeo. Le sfide con le quali l’UE si confronta interessano ambiti geografici e tematici ognuno portatore di esigenze diverse, ma tutti destinati ad avere impatti reali sul futuro dell’Unione. Necessario, dunque, trarne una sintesi che assicuri coerenza alle azioni che si intende mettere in pratica. Indispensabile, poi, desumerne una mappa delle principali criticità, sui vari fronti. Determinante, infine, individuare strumenti e risorse per il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

È emerso un generalizzato sentimento di insicurezza, che non ha risparmiato nessuna area del mondo.

Giampiero Massolo

Sintesi e cartografia delle criticità

La realtà geopolitica odierna è radicalmente mutata rispetto anche solo a pochi anni fa. La pandemia, i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, gli effetti sempre più evidenti e preoccupanti del cambiamento climatico, una transizione energetica che ancora fatica a mettere tutti d’accordo e le incognite schiuse dall’irrompere sullo scenario globale dell’intelligenza artificiale hanno determinato l’emergere di un generalizzato sentimento di insicurezza, che non ha risparmiato nessuna area del mondo. Il riflesso sulle dinamiche dello scenario internazionale non si è fatto attendere. La logica del confronto e della convenienza ha cominciato ad avere la meglio su quella della cooperazione. Il multilateralismo ne è uscito fortemente indebolito, aprendo nuovi spazi di manovra per attori, statuali e non, più interessati ad accrescere i rispettivi dividendi strategici delle situazioni di crisi che a proporsi quali fattori di stabilizzazione sistemica.

L’assenza di un chiaro modello di equilibrio delle relazioni internazionali rende il quadro ancor più complesso da decifrare. Siamo da poco usciti dal periodo della governance a trazione americana che era succeduto alla fine della guerra fredda, ma un bipolarismo tra Stati Uniti e Cina –- che sembrerebbe il logico approdo successivo – stenta ad affermarsi. Ci troviamo così in un mondo confusamente multipolare, in cui partnership e alleanze tendono a formarsi spesso in modo estemporaneo e sulla base delle convenienze del momento più che sulla condivisione di sistemi valoriali o ideologie.

In questo contesto di diffusa incertezza appare arduo immaginare di fare affidamento su schemi di collaborazione stabili ed affidabili a prescindere. I rischi dello stare al mondo sono così andati moltiplicandosi di pari passo con le minacce e con il venir meno delle rendite di posizione e delle reti di sicurezza che avevano contraddistinto gli scorsi decenni. Le dimensioni lungo le quali queste insidie si muovono sono tali e tante da rendere molto labile il confine tra sicurezza e instabilità. E’ indispensabile tenerne conto e attrezzarsi di conseguenza.

Ogni analisi sulle vulnerabilità dei sistemi nazionali, ogni paradigma di sicurezza deve oggi necessariamente incorporare elementi immateriali a fianco di elementi fisici. In un mondo crescentemente pericoloso, strumenti militari efficienti e tecnologicamente evoluti sono necessari, ma ormai non più sufficienti. I conflitti del XXI secolo sono e saranno sempre più anche di natura ibrida, multidimensionale, immateriale, per l’appunto. La “weaponizzazione” del web, così come dei flussi energetici, finanziari o di quelli migratori, può mettere in ginocchio un Paese più rapidamente e con maggiore efficacia di un attacco convenzionale. Ogni sistema paese è così sottoposto a crescenti pressioni, dall’interno e dall’esterno, e i governi, anche quelli dei regimi non democratici, si trovano a far fronte alle allarmate richieste di protezione provenienti dai cittadini. Una sfida nella sfida per l’Occidente, ma soprattutto per l’UE, che legittimamente ambisce a rappresentare un modello da seguire, un esempio di successo di democrazia e prosperità, diritti e opportunità. 

Per l’Europa la situazione è resa più complessa da sfide che, sul fronte esterno, si sono acuite proprio mentre Istituzioni comunitarie e Stati membri trascuravano le conseguenze della progressiva perdita di capacità dell’Unione di incidere sulle crisi internazionali. L’indebolimento della gravitas diplomatica dell’Europa, frutto anche delle perduranti divisioni della membership su temi chiave come l’estensione alla politica estera del voto a maggioranza qualificata del Consiglio ha significativamente coinciso con il passaggio alla fase attuale di sostanziale anarchia dello scenario globale. Una difficile congiuntura economica, inoltre, ha reso più pesanti i costi sociali dell’adeguamento dello strumento militare reso indispensabile dagli ultimi sviluppi geopolitici. 

La “weaponizzazione” del web, così come dei flussi energetici, finanziari o di quelli migratori, può mettere in ginocchio un Paese più rapidamente e con maggiore efficacia di un attacco convenzionale.

Giampiero Massolo

La guerra in Ucraina si è rivelata un brusco risveglio dalla illusione che la sicurezza potesse essere raggiunta a buon mercato o limitarsi a dimensioni quali il cyber, la lotta al terrorismo o il contenimento dei flussi migratori. D’improvviso, lo spettro di una guerra convenzionale sul territorio europeo è parso una eventualità non più così remota e si è fatta strada l’esigenza di un cambio di passo di cui l’adozione della “Bussola Strategica” del marzo 2022 è stato indubbiamente un segnale importante, che ha posto le basi per la definizione delle linee guida alle quali dovrà ispirarsi la politica di sicurezza e di difesa dell’UE entro il 2030.

Mobilitare gli strumenti giusti

Il cammino, tuttavia, appare ancora lungo, e ulteriori progressi si rendono necessari:  

  • sul piano politico, che è prioritario; 
  • su quello delle risorse, che ne è la logica conseguenza; 
  • su quello della integrazione dell’industria della difesa, che ne rappresenta la struttura operativa portante.

Politica

Dal punto di vista politico si tratta, in primo luogo, di dare concretezza all’idea, ancora allo stato prevalentemente teorico, dell’autonomia strategica europea. C’è qui subito da sgombrare il campo da un equivoco di fondo: non di “indipendenza” ma appunto di “autonomia” strategica stiamo parlando. Per il futuro prevedibile, l’Europa non potrà, infatti, prescindere dal rapporto transatlantico e dal supporto degli Stati Uniti per la propria sicurezza e per assicurarsi un livello adeguato di deterrenza nel proprio contesto geopolitico. Ciò, a sua volta, postula come obiettivi immediati:

  • la strutturazione e lo sviluppo degli elementi costitutivi dell’autonomia (appunto, obiettivi politici, risorse e capacità);
  • la definizione di un “corrispettivo” strategico da corrispondere agli Stati Uniti, in termini di partecipazione adeguata al “burden sharing” e di assunzione concreta di responsabilità, in cambio di una perdurante presenza americana in Europa.

In questo contesto, l’idea dell’autonomia strategica, declinata sul piano securitario, ha un presupposto logico inevitabile, ovvero dotare l’Unione di una politica estera e di sicurezza comune guidata da un definito “interesse nazionale europeo”, e una conseguenza operativa evidente, che implica il dare luogo a una prassi consolidata di condivisione tra gli Stati membri della percezione dei rischi e delle minacce. Fino ad oggi, ogni tentativo di arrivare alla definizione comune di un reale interesse europeo si è scontrato con la tendenza a prevalere degli interessi nazionali dei Paesi membri. I tentativi di realizzare un atto di sintesi a 27 in questo ambito, si sono spesso risolti in defatiganti esercizi di mediazione seguiti da compromessi al ribasso. Una aporia, crescentemente anacronistica, che proprio sulle questioni legate alla difesa e alla sicurezza ne evidenzia l’insostenibilità dei costi, politici, strategici e finanziari. 

L’idea dell’autonomia strategica, declinata sul piano securitario, ha un presupposto logico inevitabile, ovvero dotare l’Unione di una politica estera e di sicurezza comune guidata da un definito “interesse nazionale europeo”.

Giampiero Massolo

La rapidità nella reazione che l’evoluzione dello scenario globale impone all’Europa non è d’altronde compatibile con un adeguamento in profondità dell’assetto normativo comunitario in materia, che richiederebbe una riforma dei Trattati dai tempi inevitabilmente lunghi e dagli esiti incerti. Ciò vuol dire, da un lato, che sarà necessario fare sempre più ricorso a maggioranze a geometria variabile trainate da gruppi di Stati membri like-minded e, dall’altro, che occorrerà promuovere con spirito pragmatico iniziative e processi decisionali e di coordinamento più snelli che consentano all’UE, per quanto possibile in questa fase, di parlare con una voce sola. Ciò, anche nei contesti multilaterali, come la NATO, dove l’Europa è stretta tra l’esigenza di rispettare il vincolo del 2% del PIL nelle spese militari, i cui costi sociali si avvertono con crescente durezza, e la ricerca di un equilibrio nella definizione delle priorità strategiche, tra le sensibilità sul fianco est dei Paesi baltici e balcanici e la preoccupazione per le crisi nel Mediterraneo che accomuna i Paesi della sponda sud (il dibattito sulla valutazione dei rischi e delle minacce, per l’appunto).

Risorse

Se l’eterogeneità delle posizioni nazionali sulla politica estera e di sicurezza appare oggi di difficile armonizzazione – anche per effetto della debolezza del “motore franco-tedesco” – sul versante delle risorse non mancano possibili soluzioni, per quanto tutta da verificare ne appaia la concreta percorribilità. Anche su questo punto il rapporto di Mario Draghi mostra un approccio pragmatico e realistico, che trae inevitabile spunto dalla mancanza di un bilancio europeo dedicato alla difesa e dunque dal possibile ricorso a canali e strumenti già esistenti.

Gli ingenti investimenti necessari per garantire un adeguamento delle capacità militari europee sul piano qualitativo e quantitativo richiedono una razionalizzazione delle spese nazionali che si concentri in primo luogo sulla eliminazione delle numerose duplicazioni esistenti. Se un incremento degli impegni nei settori della ricerca e sviluppo e della innovazione emerge come questione indifferibile per far fronte ad esigenze operative in continua evoluzione, esso dovrà essere indirizzato prioritariamente verso progetti di iniziativa comune che presentano le maggiori prospettive di successo. L’istituzione nella neocostituita seconda Commissione von der Leyen di un Commissario europeo per la difesa e lo spazio potrà giocare un significativo ruolo propulsivo in questo senso, ma non potrà prescindere da un adeguato supporto degli Stati membri. 

Da essi dipenderà, in definitiva, la scelta degli strumenti di cui dotarsi, tra finanziamenti ad hoc, il ricorso al bilancio comunitario attraverso l’attivazione di nuove voci di spesa o la promozione di partnership pubblico-privato. Tuttavia, sarà sul fronte della creazione di un possibile “NextGenEU” dedicato all’industria della difesa che potrebbe in prospettiva giocarsi la partita più importante, in ragione delle dimensioni dell’impegno richiesto dall’obiettivo di unificare un mercato altamente frammentato dal punto di vista delle procedure e degli strumenti finanziari. L’atteggiamento negativo dei Paesi frugali nei confronti di qualsiasi ipotesi di debito comune rende ad oggi tale prospettiva di difficile attuazione. Nondimeno, essa resta sullo sfondo quale punto d’arrivo ideale di un progressivo processo di convergenza delle volontà politiche degli Stati membri, che potrebbe utilmente essere trainato dal comparto industriale.

Industria di difesa

Il Rapporto di Draghi, infatti, raccomanda iniziative tese a favorire il rafforzamento della base industriale europea nel settore della difesa e dello spazio mettendo in rilievo i costi sempre crescenti delle duplicazioni negli acquisti e nelle produzioni nazionali di armamenti che si riscontrano oggi. Costi crescenti, peraltro, non solo in termini finanziari, ma anche operativi. Lo sviluppo di un sistema razionale e coerente di difesa attraverso un nuovo programma di acquisti condiviso appare, in questo senso, una strada obbligata.

Le criticità, d’altronde, sono note:

  • la riallocazione della manodopera da una produzione ad un’altra e tra aree geografiche diverse: un obiettivo la cui realizzazione implica costi sociali e logistici ingenti e non sempre affrontabili che, peraltro, appaiono non neutri sul piano tanto economico quanto politico; 
  • i rapporti di collaborazione già esistenti sul piano produttivo tra Stati membri e partner industriali e commerciali extra-europei: non tutti potrebbero essere disposti a rinunciare a consolidati programmi di investimento e/o di acquisto per privilegiare ipotesi di soluzioni europee per le stesse categorie di prodotto (basti pensare agli aerei da caccia di nuova generazione che vedono impegnati Paesi europei in progetti tra loro concorrenti); 
  • le complessità del passaggio da un approccio nazionale ad un approccio europeo al concetto di interoperabilità: la prospettiva della nascita dell’embrione di uno strumento di difesa comune rende indispensabile affrontare questo nodo, ma le resistenze dei comandi militare dei Paesi membri e delle aziende nazionali del comparto rendono il cammino molto difficoltoso; 
  • la conseguente, necessaria abdicazione alle decisioni nazionali in materia di procurement con lo sviluppo di procedure comuni; anche in questo caso gli accordi commerciali e produttivi esistenti con Paesi extra-europei complicano le prospettive di unificazione delle procedure, così come le potenziali reazioni degli stessi partner occidentali (in particolare americani) che lamenterebbero pratiche discriminatorie laddove gli standard concordati si rivelassero escludenti nei confronti delle loro aziende; 
  • il trade-off tra spese militari e spese per i sistemi di welfare nazionali: il dibattito sull’obiettivo del 2% del PIL per le spese militari ha evidenziato in Europa sensibilità anche molto diverse nella membership, specie in relazione alla percezione nelle opinioni pubbliche degli ingenti costi sociali associati ai programmi di riarmo imposti dal mutato quadro di sicurezza internazionale.

Si tratta di questioni destinate ad incidere sensibilmente sui percorsi di convergenza delle politiche europee in materia di difesa e sicurezza. Ciò nonostante, se appare scontato non attendersi in tempi rapidi grandi balzi in avanti, è lecito altresì ritenere che le circostanze dettate dalla difficilissima congiuntura attuale premeranno per l’adozione di decisioni più coraggiose. Ancora una volta, sarà decisiva la capacità degli Stati membri con maggior peso politico di agire di fronte alla complessità delle sfide che caratterizzano la realtà odierna, prendendo atto delle interdipendenze esistenti.

Eventuali ritardi negli investimenti sull’innovazione tecnologica, ad esempio, rappresenterebbero un ostacolo ad un’efficace strategia di decarbonizzazione e di sviluppo della capacità di produzione europea delle energie rinnovabili. Ciò indebolirebbe l’autonomia strategica dell’Unione e determinerebbe l’insorgere di limiti all’approvvigionamento energetico e quindi concreti rischi per la sicurezza. Non è un caso che uno dei messaggi più significativi del rapporto di Mario Draghi risieda proprio nella raccomandazione di favorire una politica industriale per l’Unione europea che possa fare leva su una molteplicità coerente di strumenti e di politiche, superando quella compartimentalizzazione, quella logica “a silos”, che per troppo tempo ha caratterizzato l’azione europea. È su questo appello per una politica industriale strategica che si dovrà valutare la reazione degli Stati membri, non tanto – o non solo – sulla questione pur fondamentale del debito comune, su cui le posizioni sono note da tempo e pressoché cristallizzate. 

Serve uno slancio in avanti, servono dei Paesi apripista che facciano mettere in moto la macchina delle riforme. Anche, e forse soprattutto, ad essi, è rivolto l’invito di Mario Draghi.  

Giampiero Massolo

Dinanzi ad attori unitari, come Stati Uniti e Cina, l’Europa non può più permettersi di non avere una strategia comune. E se sviluppare una “dottrina” tout court in senso classico non è un’opzione percorribile per l’Europa dei 27, il percorso tracciato da Draghi identifica nella politica industriale europea quello che potrebbe essere considerato un “minimo sindacale”, una base su cui l’Unione possa costruire quell’unitarietà per non rimanere indietro e continuare a provare a incidere sulle questioni cruciali del nostro tempo. 

In questo senso, risulta utile spostare l’attenzione dall’annoso – e interminabile – dibattito tra chi vuole più Europa e chi ne vuole meno. Il punto di partenza non può e non deve essere una visione ideologica sull’integrazione europea, ma le condizioni oggettive che possono consentire all’Unione di restare al passo con la storia. Per questo occorre adottare un approccio pragmatico nei settori nei quali è imprescindibile che l’Europa agisca unitariamente. Al tempo stesso, però, questo non può più costituire un dogma, valido a prescindere. Esistono, infatti, altri ambiti in cui le Istituzioni comunitarie dovrebbero fare meno, specialmente quando si tratta dell’azione regolamentativa che spesso è finita per essere un ostacolo al processo di integrazione europeo. Si tratta, in sostanza, di applicare – di più e meglio – il principio di sussidiarietà. 

Seguendo la stessa logica di pragmatismo, si certifica anche l’importanza dell’integrazione differenziata: avanzare tutti e 27 insieme rischia di trasformarsi in una comoda giustificazione per l’inazione. Serve uno slancio in avanti, servono dei Paesi apripista che facciano mettere in moto la macchina delle riforme. Anche, e forse soprattutto, ad essi, è rivolto l’invito di Mario Draghi.