Riesco a intercettare Vanni Santoni – prolifico scrittore globetrotter – di ritorno da una presentazione a Udine. È in tour per il suo ultimo libro, Dilaga ovunque, pubblicato da Laterza e finalista al Premio Campiello 2024. Siamo in un chiassoso bar di via Gioberti, a Firenze, vicino piazza Beccaria. Non è uno dei punti di riferimento di Santoni, scrittore che ama lavorare nei caffè notturni e nelle biblioteche universitarie, ma un ripiego per evitare che il caldo afoso fiorentino ci travolga.
Un valdarnese, di Montevarchi, a un certo punto arriva a Firenze. Perché?
In realtà, a essere precisi, ho vissuto a Firenze dagli zero ai tre anni, in via Masaccio, la stessa via dove visse, per un periodo, Cristina Campo. Mi piace pensare che magari, da piccolo, quando mia madre mi portava nel passeggino in piazza Savonarola, ho ricevuto la carezza di Cristina Campo, che è altrettanto cristiana ma certamente preferibile rispetto a quella del Papa. Poi i miei genitori si sono trasferiti in Valdarno, dove c’erano già delle radici: valdarnesi da parte di mio padre, valdambrine da parte di mia madre. La Valdambra sta fra il Valdarno e Siena, per capirsi. In realtà io credo che crescere a Montevarchi, piccolo centro di 25 mila abitanti già industrialmente importante a inizio Novecento, e poi irrimediabilmente decaduto, ti offra una prospettiva ulteriore su Firenze. Una prospettiva che ho reso nel libro che scrissi su Firenze, Se fossi fuoco arderei Firenze. In genere, il fiorentino nato e cresciuto a Firenze – specialmente se nell’area storica – vive all’interno di una bizzarra sindrome allucinatoria che lo porta a credere che Firenze sia tutt’ora al centro del mondo. Cioè per il fiorentino di oggi – a livello più o meno inconscio – Firenze è ancora quella che era nel ‘400.
Questione che non è completamente infondata, perché Firenze si guarda molto indietro. Sappiamo, come ha testimoniato una ricerca, che le venti famiglie più ricche di Firenze di oggi sono le stesse venti famiglie di 600 anni fa. Che Firenze sia rimasta immutata non è dunque del tutto falso; peccato però che sia cambiato tutto il resto intorno. Nel senso che il resto del mondo non è più lo stesso. Va detto però che la sindrome in questione colpisce tutti gli abitanti delle città che in una fase della loro storia sono state al centro del mondo. I parigini sono convinti che tutt’ora Parigi sia il centro del mondo, e non solo della Francia… I newyorkesi sono convinti che New York sia il centro del mondo – e già hanno qualche ragione in più. Quando il mondo magari si sarà spostato irrimediabilmente verso altre direzioni, il newyorkese sarà il fiorentino di domani.
Crescere nel cosiddetto contado ti permette un’osservazione più critica, più distaccata, più disincantata di ciò che è in realtà Firenze. Tanto più poi che il Valdarno si situa fra Firenze, Siena e Arezzo. Tipicamente, il valdarnese guarda più a Firenze, anche a causa del collegamento ferroviario; il suo viso è orientato in quella direzione, e, anzi, verso Arezzo ci guarda poco volentieri, mentre verso Siena ci guarda un po’ stranito. Però codesto trovarsi fra tre diversi poli toscani dà anche una maggiore possibilità di lettura della Toscana, senza cadere in facili campanilismi. D’altra parte, la Toscana è un frattale di campanilismi. Firenze può odiare Pisa o Siena, e Pisa può odiare Livorno, ma se vai in Valdarno c’è la rivalità fra Montevarchi e San Giovanni. E se vai a Montevarchi, c’è la rivalità fra la Ginestra e il Pestello. E se vai al Pestello c’è la rivalità fra il Pestello alto e il Pestello basso. Si può dunque presumere che anche nel Pestello basso ci siano rivalità fra diverse strade. In effetti, a pensarci, ho sempre guardato con sospetto quelli di via Scrivia…
Su Firenze in questi anni hai assunto posizioni pubbliche. La città è peggiorata da quando hai cominciato a frequentarla?
Anzitutto, una premessa. Siamo entrambi grandi appassionati di Giovanni Papini. E più volte, quando abbiamo parlato della situazione in questa città, abbiamo evocato un famoso scritto di Papini, che nel suo descrivere una città che vive sui forestieri e fatica a farsi nuovamente culla d’ingegni, sembra scritto ieri – e invece è stato scritto cento anni fa. Evidentemente, certe nostre impressioni sulla città fanno parte di Firenze fin da quando ne è cominciata la decadenza rispetto al Rinascimento. Quindi, io cerco sempre di essere cauto quando si parla di “peggioramento”. Vedi, nei miei libri io mi occupo anche di sottoculture e controculture, alcune peraltro molto diverse fra di loro (i rave in Muro di casse, i giochi di ruolo ne La stanza profonda o i graffiti in Dilaga ovunque), e in qualunque sottocultura, che abbia o non abbia anche un livello controculturale o politico, troverai sempre quelli che dicono che “non è più come una volta”. I nostalgici di un’epoca d’oro che spesso – nota bene – quell’epoca d’oro eventuale non l’hanno mai vissuta.
Questo si ritrova fortissimo nella fiorentinità; si rimpiange quando c’era Batistuta alla Fiorentina, si rimpiange la Firenze degli anni Ottanta quando era la capitale del rock. Chi viveva la capitale del rock rimpiangeva una Firenze non precisata degli anni Settanta, una Firenze addirittura psichedelica in cui – si dice – allo Space Electronic c’era la musica dei Vanilla Fudge e si tenevano happening visionari inimmaginabili. Ma via via andando indietro si arriva fino al tizio del Rinascimento che, possiamo star certi, diceva che nel Medioevo era tutto meglio.
Quindi bisogna stare attenti a non avere anche noi questa sindrome. Perché a volte dietro questa sindrome del “non ci sono più le feste di una volta” si nascondono persone che hanno nostalgia per i loro vent’anni, quindi una incapacità di vedere il contesto in modo non condizionato dai propri filtri personali. Pur coi limiti di tempo che mi impone la scrittura, la scena rave ho sempre continuato a frequentarla, e non mi è sembrato che il teknival del 2021 fosse così peggio di quello del 2007 o di quello del 1998. Certamente, se ci vado a 45 anni la mia attitudine rispetto a un baccanale sarà ineludibilmente diversa rispetto a quella che potevo avere a 20 anni.
Detto questo, non nascondiamoci il fatto che negli ultimi tempi e sotto alcuni aspetti, Firenze è effettivamente cambiata. Ma quando si parla di questi cambiamenti, la cosa più difficile è trovare delle cause o almeno dei nodi causali. Perché si tratta molto spesso di processi storici molto distribuiti: un giorno ti svegli, esci di casa e invece dell’edicola c’è una bisteccheria. Qualcosa è successo, ma non c’è alcun Piano Kalergi delle bisteccherie che hanno preso il posto delle edicole. Semmai è tutto parte di un cambiamento sistemico molto più vasto. Se volessimo però identificare un evento, se non scatenante, almeno paradigmatico, allora potrebbe essere quell’errore storico, per me grandissimo, che è stato il voler spostare alcune delle più importanti facoltà universitarie fiorentine nel quartiere periferico di Novoli. Io ho studiato a Scienze Politiche, quindi ho fatto tutta l’università in via Laura, in centro, e poi ho discusso la tesi al Polo di Novoli; ci andavo il meno possibile, però qualche volta in via delle Pandette ci sono stato. Ora, si può anche sostenere che le scienze sociali fiorentine meritassero uno spazio unitario, più pratico, e dunque per forza di cose da situarsi in periferia, e magari c’è anche chi spostandosi in macchina lo preferisce, ma… facciamoci due domande. Mentre l’università fiorentina se ne andava a Novoli, le università americane, che non hanno mai smesso di investire in città, acquistavano o prendevano in affitto palazzi storici del centro.
Perché?
Evidentemente l’esperienza di studiare a Firenze è inscindibile dal fatto di stare in mezzo ai sassi di Firenze.
La logica del campus universitario deriva da una impostazione americana che ha delle ragioni sociologico-urbanistiche diverse. Le città americane sono fatte in modo diverso da quelle europee e il campus nasce all’interno di processi storici molto precisi e molto diversi dai nostri. Le nostre università invece, che sono tra le più antiche nel mondo, evidentemente facevano parte del tessuto storico della città. Averle spostate in periferia è stato un grande errore. Ma non è solo questo il problema, perché eventualmente l’errore riguarderebbe solo gli studenti e chi ci insegna. La questione riguarda il valore della città. Se una città si presenta comunque con delle facoltà nel centro storico esprime anche un certo tipo di immagine che evidentemente, se si presenta solo con bisteccherie o schiacciaterie, non esprime. Ora tutti si lamentano dell’overtourism, ma era ovvio che la presenza degli studenti, con le facoltà e quindi con i servizi per gli studenti – librerie, barretti, localini, case in affitto per gli studenti, magari in vecchi palazzi – “proteggeva” il centro storico, garantiva la presenza di almeno qualche grado di realtà.
In un’ottica cinicamente economica averli mandati via ha prodotto un indotto evidente, perché da un lato è stato dato il centro a turisti paganti, dall’altro lato anche il valore degli appartamenti a Novoli, all’Isolotto o in altri quartieri periferici è cresciuto. Non sono così ingenuo da non vedere che ci sono delle ragioni che portano un guadagno sul breve termine; ma credo che portino anche a un impoverimento culturale sul lungo termine. È questo per me il problema. Quando tornai nel 2002/2003 a stare fisso a Firenze dopo aver fatto il servizio civile – visto che non ero uno studente molto bravo, mi toccò – trovai una città estremamente vitale dal punto di vista culturale. Perché c’era stato un piccolo ma assai significativo cambio generazionale all’interno di una militanza socio-politica che si era scollegata dai vecchi spazi e dalle vecchie logiche, forse anche spostandosi più su dimensioni prettamente culturali. In particolare, uno spazio come l’Elettro+ è stato un hub, un acceleratore culturale, altro che gli “acceleratori di start-up” che cercano di venderci oggi. In quella Firenze trovai sponde interessanti. Trovai delle riviste, cominciai a scrivere, partecipai all’organizzazione di eventi di musica elettronica underground, tanto era il fermento che a un certo punto con degli amici tirammo su addirittura un’agenzia pubblicitaria a sfondo sociale. Nel frattempo lavoravo nel mondo della formazione per conto mio, avevo un’azienda. Trovai una città oltremodo reattiva.
Quella vitalità della Firenze 2002-2003 a livello culturale era tutta, o quasi, frutto di autogestione o frutto di iniziative personali. Non era mai frutto di una qualche volontà dell’amministrazione. Anzi. Quando nel giro di qualche anno abbiamo tirato su quella che poi è diventata nota come la cosiddetta “scena letteraria fiorentina” o “scenicchia”, che ha prodotto tanti autori, riviste su riviste, festival e iniziative diventate leggendarie, come Torino una sega e quant’altro, mi ha sempre stupito la straordinaria sordità della città. C’era qualcosa che aveva evidentemente un grande valore, un valore che veniva riconosciuto in tutta Italia e di cui tutta Italia parlava, ma la città ha fatto come se niente fosse. Non credo che l’abbia snobbata volontariamente; semplicemente mancava, come è sempre mancata in città, la capacità di ascolto, di intercettare quel “buzz” culturale spontaneo che veniva visto quasi con sospetto, vuoi perché legato alle autogestioni, e quindi al mondo dell’autonomia e della sinistra extraparlamentare, per dirla in termini anni Settanta, vuoi perché nasceva da iniziative di privati che non erano collegati a determinati sistemi.
L’epoca della scena letteraria fiorentina è nata, sbocciata ed è durata una decina d’anni. Ha fatto un sacco di cose e poi chiunque ne facesse parte si è trovato un editore a Roma o a Milano, se non se né andato proprio all’estero e ha continuato a svolgere le sue attività a livello individuale, o con altri gruppi incontrati altrove. Per carità, va bene anche così. Però lì qualcosa si è perso, qualcosa di importante. Chi ha le spalle più larghe, o è più fortunato, o entrambe le cose, troverà comunque la sua strada, come è capitato a diversi di noi.
Ma se una scena si radica davvero, se si forma un humus che non solo funziona ma dialoga anche con strutture più “ufficiali”, allora anche chi non riesce ad affermarsi al primo giro sarà tutelato, ed esprimerà magari qualcosa di valore dopo, coi suoi tempi. Una scena letteraria crea continuità. Magari non tutti riusciranno a pubblicare con una casa editrice importante, ma qualcuno pubblicherà una rivista e su questa rivista ci debutteranno nuovi esordienti; qualcun altro uscirà con una casa editrice indipendente valida, eccetera. Da lì ci sarà un passaggio di testimone generazionale e via così. A Firenze questo in parte è mancato. Ormai la “scenicchia” si può definire un fatto storicizzato, visto che parliamo di qualcosa che è avvenuto fra il 2004-2005 e il 2014-2015. Volendo però ragionare in termini prospettici quello che poi è mancato, per una solidificazione della scena letteraria fiorentina, è anche la mancanza di un editore di alto profilo in città. C’è Giunti, certo, e da quanto Giunti ha acquistato Bompiani ovviamente è diventato un editore di altissimo profilo. Però il gruppo non ha mai avuto chissà che vocazione fiorentina, chissà forse per volontà di rivendicare il proprio profilo nazionale (che potrebbe essere anche timore di apparir provinciali: tipico della Firenze contemporanea); di certo non si è mai interessato troppo a quello che succedeva nell’underground letterario cittadina. Quando un gruppo è così grande può farne a meno, senz’altro… però, se vai a vedere, Einaudi qualche autore torinese in più della media ce l’ha. Mondadori o Feltrinelli qualche autore milanese in più della media ce l’hanno. Laterza qualche autore romano in più ce l’ha. Sarebbe stato interessante, io credo, vedere cosa sarebbe successo se a suo tempo Giunti si fosse interessata maggiormente agli autori che uscivano da quella scena. Non dico che sarebbero stati dei grandi successi, ma magari la scena si sarebbe radicata di più. Ma forse è ingenuo credere che una major possa occuparsi di questioni simili. Forse la verità è che è mancata una minimum fax fiorentina. Le cose sarebbero state diverse se ci fosse stata una struttura medio-piccola – non così piccola come alcuni piccoli o piccolissimi editori pur meritori che hanno agito o agiscono in città, ma neanche grande quanto Giunti-Bompiani – come la minimum fax degli anni d’oro. Fra, diciamo, il 2003 e il 2013 non ha solo fatto esordire un sacco di gente poi divenuta imprescindibile, ma è stata anche un vero acceleratore per la scena letteraria e culturale romana, da lì sono passate persone che poi hanno avuto ruoli importanti, che hanno formato altra gente, che hanno insomma fatto da cinghia di trasmissione tra underground e mainstream.
Ora, per tornare a quello che dicevo, e che vale anche al di là del solo ambito editoriale, aver spostato le facoltà in periferia crea un danno alla possibilità stessa che un underground si formi. Quando arrivai nel 2003, trovai la rivista Mostro che faceva le riunioni al circolino in Borgo San Jacopo. Altre assemblee avvenivano al bar occupato di Lettere. C’era il Bandone in via Maragliano, c’era il Collettivo Politico in via Laura, c’erano gli anarchici del vicolo del Panico… Insomma, entrando a Firenze, se ti interessava far cultura, o anche solo fare qualcosa, ma farlo a modo tuo, trovavi delle sponde immediate, sponde che ora sono inevitabilmente disperse, anche se ci sono isolette culturali che resistono, come ad esempio la Polveriera di via Santa Reparata.
Si può dire che Vanni Santoni è uno scrittore notturno? Noi stessi ci siamo incontrati alcune volte alle 2 di notte in locali nei quali ti eri fermato a scrivere.
Alle 2 ma anche alle 3 al Caffè Notte… anzi, quando c’era Danilo, il vecchio padrone, pure alle 4 e mezzo. Il problema è che adesso questi locali chiudono prima. L’effetto della turistificazione è anche questo. I vecchi covi, in cui c’erano i vecchini che giocavano a carte, bevevano grappe e facevano l’alba, non ci sono più perché si preferisce monetizzare sul turista, sulla cena o sull’aperitivo e poi chiudere. Io ho sempre avuto una vocazione notturna o al massimo pomeridiana. Di pomeriggio in biblioteca; sono uno di quelli che presidia appunto uno degli ultimi luoghi di incontro aperti, anche se meno aperto di un tempo – perché con la scusa del Covid hanno messo i tornelli dicendo che sarebbero stati rimossi e poi ovviamente sono rimasti –, cioè Brunelleschi, la biblioteca di Lettere, dove tutt’ora vado a scrivere al pomeriggio, perché mi piace lo stile anni Sessanta-Settanta di quelle vecchie aule leggermente sgarrupate. Vado nelle aule di germanistica, di slavistica, e ci sto proprio bene, mentre invece le Oblate, pur essendo una bellissima biblioteca ed essendo centrale, è troppo “pettinata”, troppo lustra. E poi c’è anche poco posto.
Molto spesso queste nuove biblioteche non sono progettate con la logica di un tempo, che era mettere più posti a sedere e più tavoli possibile. A volte vengono privilegiate delle soluzioni architettoniche tali da rendere più bella possibile, ma non necessariamente più usabile possibile, la biblioteca; difficile, dunque, non pensare al turista, se si pensa male, o al biglietto da visita della città, se si vuol pensare un po’ meglio. Ma il punto è lo stesso: se vai alle Oblate, a volte non trovi posto. Quando uno esce di casa con la mente già al libro da scrivere, non deve avere rotture di scatole di questo tipo. Deve trovare un posto per scrivere. Subito. Per questo vado in Brunelleschi.
Per quanto riguarda la sera, invece, l’esigenza dello scrittore è trovare un luogo in cui si beve in modo non troppo dispendioso e che sia aperto fino a tardi. I luoghi d’elezione erano stati per anni il Caffè Notte e la Cité, entrambi di là d’Arno. Il Caffè Notte è nell’Oltrarno profondo, ed era tradizionalmente frequentato dall’anima popolare e artigianale di Firenze; la Cité nacque proprio dall’onda di quel periodo di militanza culturale a cui mi aggregai nel 2002-2003. Persone che uscivano dall’esperienza del Bandone e dell’Elettro+, e da altre autogestioni e occupazioni fiorentine, vinsero un bando, si misero insieme e aprirono la Cité come libreria caffè. Si può dire che il Caffè Notte venisse dall’underground fiorentino degli anni Ottanta e la Cité dall’underground fiorentino degli anni Zero.
Io, Gregorio Magini e il povero compianto Sergio Nelli ci trovavamo sempre in questi luoghi che divennero dei piccoli acceleratori culturali. Alla Cité cominciammo a organizzare presentazioni, perché c’era la libreria. Al Caffè Notte cominciavamo a fare reading e nacque il famoso happening “Torino una sega”. Ma ora non ci sono più presentazioni alla Cité né reading al Caffè Notte, anche se – per fortuna – esistono ancora e sono ancora luoghi di ritrovo di una Firenze letteraria sotterranea, ma molto meno di un tempo. In tempi più recenti, un posto che avevamo preso di mira era Più liberi più libri, in via San Gallo, che ora però ha cambiato gestione. Con il suo giardino, nonostante il caldo, si presentava abbastanza bene per scrivere nel tardo pomeriggio… Cosa ci resta adesso per bere e scrivere la sera? Il Torrino di Santa Rosa, ovvero il Circolo La Rondinella. Speriamo duri.
E per mangiare?
Sono due le trattorie paradigmatiche della scena letteraria (e non solo): Sabatino e le Mossacce.
Le Mossacce in via del Proconsolo e Sabatino in porta San Frediano. Abbiamo frequentato di più quest’ultima perché dalla Cité o dal Caffè Notte era abbastanza vicina a piedi. Cibo genuino ed economico. Il problema è che Firenze cambia anche per via degli instagrammer e degli influencer, che hanno fatto diventare virali i molto economici menu di Sabatino, battuti ancora con una vecchia macchina da scrivere Olivetti. Quindi se ora uno cerca di andare a mangiare da Sabatino il vitello steccato e il raviolo di patate trova una coda che neanche al Ministry of Sound di Londra nel 1998. La coda gira addirittura l’angolo. Certamente, la proprietà fa quel che può; se magari ci vede e ci identifica qualche volta ci riesce a trovare un tavolo. Tutto questo però rende complicato quel modo di vivere che era consustanziale alla produzione letteraria. Uno stava tutto il giorno alla Cité, poi faceva una presentazione, usciva e andava da Sabatino, dove trovava posto subito, mangiava velocemente e poi andava al Caffè Notte per rimettersi a scrivere.
In questo flusso quotidiano sono nate la produzione letteraria e quindi anche la scena letteraria fiorentina. Ma per far capire quanto le cose sono cambiate, cito un altro posto diventato famoso. Un po’ di anni fa, una decina credo, uscì questa antologia che si chiamava Toscani maledetti, un ribaltamento del famoso Maledetti toscani di quel pratese di Malaparte. Era una raccolta curata da Raoul Bruni per le edizioni Piano B che raccoglieva più o meno tutte le voci di questa scena fiorentina, arricchita anche da qualche nome toscano, non necessariamente fiorentino, come Fabio Genovesi, Francesca Matteoni o Luca Ricci. Una bella antologia. In quell’antologia c’era un racconto peraltro esilarante – di Gregorio Magini, altro membro della comunità letteraria fiorentina, che si chiamava Il Giacallo. Parlava di un cialtrone, arrapato e tifoso della Fiorentina, che aveva tutte le sue teorie, si riteneva un gran ganzo e un gran trombatore, anche se in realtà si trattava di un grullo. Enunciava, questo tizio, tutte le sue tesi mentre beveva vinellini e mangiava crostini all’Antico Vinaio. Oggi tutti sappiamo che l’Antico Vinaio è diventato una gigantesca catena di schiacciaterie. C’è una quantità tale di persone a lavorare che sembra una specie di catena di montaggio. In via dei Neri c’è la coda per mangiare una schiacciata, anche più di quanta non ce ne sia per andare a mangiare da Sabatino. E invece, solo 10 anni l’Antico Vinaio era un posto in cui andavi verso le 18, c’era il vino a mescita, te lo versavi da solo, c’erano dei crostini a un euro e cinquanta, e c’era tutto un giro di fiorentini che stavano lì a far chiacchiera. Ora è diventato un luogo in cui entrano migliaia di persone l’ora, pigliano una schiacciata ed escono. Un cambiamento radicale.
Nei tuoi libri oltre al Valdarno c’è anche Firenze. Che Firenze è?
Nel mio primo romanzo, scritto perlopiù stando a Firenze, Gli interessi in comune, uscito nel 2008 e scritto, credo, fra il 2005 e il 2007, Firenze è tenuta fuori volontariamente dal centro della scena. È un romanzo ambientato in Valdarno, parla di un gruppo di svitati di un bar del Valdarno che vivono avventure e disavventure e guardano inevitabilmente a Firenze. Perché sarà il posto in cui andranno a fare l’università, in cui andranno a lavorare, in cui a volte vanno già a far serata. In locali in cui andavano magari più le generazioni precedenti alla mia, ma in cui andavamo anche noi da ragazzini, come il Montecarla.
Firenze era una sorte di orizzonte possibile, per i protagonisti di quel libro. Poi a Firenze ci arrivavano davvero, e scoprivano che in fondo è solo un’altra provincia.
Questo discorso l’ho approfondito nel libro che ho citato prima, Se fossi foco arderei Firenze, in cui invece c’era da raccontare Firenze attraverso una narrazione. Feci più il sociologo che il narratore, forse, selezionando delle possibile figure in vari luoghi di Firenze che mi permettessero di raccontare la Firenze di oggi e nello stesso tempo guardare un po’ all’indietro. Lì scelsi di parlare soprattutto di persone che erano venute qui con una vocazione artistico-culturale; d’altra parte, Firenze a causa del suo passato così gigantesco ancora li attira, simili malcapitati. Ci sono persone che vogliono fare l’artista o l’architetto o il poeta o il pittore che vengono a Firenze. Forse il musicista no perché l’eco della Firenze anni Ottanta del rock, della New Wave e del post-punk è finita. Ma per quanto riguarda le altre arti, Firenze ancora attira.
Poi però, quando uno arriva, si confronta col fatto che la città è in fondo un po’ asfittica e un po’ brucia il proprio potenziale. Firenze attira queste persone ma continua a guardare ancora all’indietro. Oppure non riesce a vedere e intercettare le novità. Quindi finisce per essere una città di passaggio, in cui la gente viene, sta spesso anche a lungo, anche più a lungo di quanto pensi, poi però finisce sempre per andarsene e per non radicarsi per mancanza di strutture culturali che coagulino le loro vocazioni e i loro talenti in un vero mestiere. Quando arrivi a Firenze le ombre dei giganti ci sono; se scrivi, ti devi confrontare con Dante, se dipingi con Botticelli, se vuoi fare l’architetto ti devi confrontare con Brunelleschi o Michelangelo. Quindi inevitabilmente ne esci con le ossa rotte. Questo mi era sembrato un aspetto interessante della città, un aspetto che per più d’un verso c’è ancora. Per questo, di nuovo, penso che aver spostato l’università in periferia sia un gesto di grande presunzione, da parte della città. Una presunzione più o meno conscia. Non può che derivare dall’idea che Firenze attiri cervelli anche a prescindere dall’università, il che è falso. Firenze attira turisti, ma se attira cervelli è perché la gente ci viene a studiare. Poi è chiaro che chi viene a studiare ci viene anche perché è la città di Dante e Brunelleschi, certo. Però le energie mentali fresche arrivano grazie all’università. Dunque l’università dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi amministra Firenze, da valorizzare in ogni modo possibile – e da tenere in centro. Ma, per tornare alla questione di partenza, nei miei libri tendo ad affrontare un tema, a spremerlo fino in fondo, quindi tendo a non tornarci sopra, e così Firenze è tornata in altri romanzi ma non è mai più stata così al centro; per esempio nella Verità su tutto l’ambientazione fiorentina è scandita dai dipartimenti di Scienze Politiche oppure dalla biblioteca di Brunelleschi. Non le avevo ancora usate e si prestavano a certe riflessioni. Altrove, nei Fratelli Michelangelo, mi sono spostato in altre aree, anche se più esterne, in provincia di Firenze, che mi sono care, come a esempio Vallombrosa e il Saltino, sui monti là attorno. Ma siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso.
Firenze è dunque un espediente letterario per parlare d’altro?
Quanto ho raccontato esclusivamente Firenze, come in Se fossi fuoco…, ero proprio costretto a parlare della città. Però anche quel libro, se vogliamo, fu una fuga.
Inizialmente pensavo che bisognasse fare come tutti i libri di quella collana, Contromano, di Laterza, in cui l’autore si metteva il cappello da guida e con fare un po’ istrionico e un po’ ironico conduceva i lettori in giro per la città. Molti libri di quella collana che hanno funzionato sono stati impostati così. Io stesso all’inizio lo impostai così, ma poi la direttrice editoriale di Laterza, Anna Gialluca, mi disse che il libro non aveva la stessa verve degli Interessi in comune, che aveva letto, e in effetti era all’origine della mia chiamata. Dato che per fortuna che non ho mai patito la sindrome del genio incompreso, ho pensato: “Se non le piace vorrà dire che è brutto”. Quindi buttai tutto a mare. Ricominciai scrivendo il libro non più in prima persona ma con un sistema “a ronda”. Una tecnica che ho ritrovato pari pari, dopo, Nella quiete del tempo di Olga Tokarczuk. Probabilmente c’è un nobile predecessore al quale abbiamo guardato entrambi e che però io non mi ricordo.
Il formato è questo: ci sono i personaggi, c’è una scena, uno dei comprimari di quella scena diventa il protagonista della successiva, e così via, finché non si chiude una sorta di Oroboros, o di nastro di Möbius. Nel caso di Se fossi fuoco…, dovevo raccontare Firenze, era il compito per cui ero stato chiamato. In altri casi, invece, per me, è sempre rimasta sullo sfondo, oppure funge da innesco. Anche La verità su tutto, un libro i cui eventi principali si svolgono in India (o, per l’Italia, in Lunigiana), parte comunque da luoghi come la stessa Brunelleschi o piazza Savonarola, dai dipartimenti di via Giusti o di via Laura. Quando conosci bene un posto riesci a trovare quel piccolo dettaglio su cui si costruisce la credibilità di una scena, e da lì quella del personaggio che vi si muove. La credibilità letteraria, nelle location, non si basa tanto su un’analisi dettagliata o minuziosa, quanto piuttosto sul riuscire a cogliere istintivamente un dettaglio altamente specifico, qualcosa che solo chi ha vissuto veramente quel posto può fare. Tutto il resto viene da sé.