In quell’inizio settimana, l’Italia sembrò tale e quale il palazzo sventrato di via D’Amelio. Un condominio partitico sventrato. Un edificio civile pronto ad afflosciarsi su se stesso. Una casa aggredita da troppi mali. Per niente difesa. Alla mercè di tutti i mafiosi di tutte le mafie e poi degli sciacalli. Sì, era un’Italia che faceva pena e paura. E che suggeriva un’immagine insieme banale e terrificante: quella della frana. Di una frana gigantesca. Di uno smottamento colossale. In moto da anni: dapprima lentamente, con movimenti quasi impercettibili, poi, via via, in discesa con velocità crescente verso l’inferno. Tanto per farti urlare: adesso non ci fermiamo più!.
Giampaolo Pansa scrisse queste parole sul settimanale “L’Espresso”, di cui allora era condirettore, dopo una delle più drammatiche domeniche d’estate della storia repubblicana. Il 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio a Palermo, due mesi dopo il tritolo con cui era stato spazzato via il giudice Giovanni Falcone, un’autobomba della mafia aveva fatto saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta di cinque agenti, tra cui Emanuela Loi, la prima poliziotta a cadere in servizio. Lo Stato sembrava «un condominio sventrato» da una frana destinata a non fermarsi più.
In quello stesso inizio settimana cominciava un’altra storia. «A quindici anni e mezzo bussai al portone blindato della sezione del Fronte della Gioventù nel quartiere della Garbatella, in cui avrei trovato la mia seconda famiglia. Più dell’indirizzo, conta la data che fu il motivo scatenante di quella decisione: 19 luglio 1992, il giorno dell’attentato a Paolo Borsellino», scrive Giorgia Meloni nella sua auto-biografia (“Io sono Giorgia”, Rizzoli, 2021). «Ho un’immagine nitida di me stessa, seduta in tinello, in una giornata caldissima, mentre guardo al telegiornale i fotogrammi sconvolgenti di quella devastazione. Riesco ancora a sentire la rabbia che si impasta con l’emozione. Un interruttore. Non accettavo più di sentirmi impotente, non sarei rimasta a guardare. Mi rivolsi al Fronte della Gioventù e al Movimento Sociale Italiano».
Trent’anni dopo, il 21 ottobre 2022, Giorgia Meloni è diventata presidente del Consiglio italiano. Nella prima visita alla Camera dopo aver presentato al presidente della Repubblica la lista dei ministri si è trovata di fronte la foto di Borsellino, una mostra sulle vittime della mafia negli anni Ottanta-Novanta, e ha commentato: «Un cerchio che si chiude».
L’effetto di Maastricht
Un cerchio che si chiude. Un cerchio durato trent’anni. Trent’anni fa, nel 1992, cominciò in Italia quel processo chiamato Tangentopoli. Le inchieste della magistratura travolsero la politica, ma non fu una questione soltanto giudiziaria. In pochi mesi un sistema politico, il più stabile d’Europa nonostante il continuo turn over dei governi, andò in rovina, senza essere sostituito. Con caratteristiche uniche nei paesi dell’Europa occidentale, più simili alle modalità con cui negli anni appena precedenti erano crollati i regimi comunisti dell’Europa dell’est. L’eutanasia di un potere, come l’ho definito in un mio libro uscito dieci anni fa (“Eutanasia di un potere”, Laterza, 2012).
La Prima Repubblica finì in modo drammatico: stragi, suicidi, ex presidenti del Consiglio trascinati nei tribunali o in fuga all’estero. Uno scenario degno del crollo di un regime dittatoriale più che di un ricambio democratico.
Nel 1992-93, sotto la spinta degli avvenimenti, Tangentopoli apparve come una rottura. Una cesura paragonabile a quella di altre fasi di passaggio del Novecento italiano. Il biennio 1921-22, con il coinvolgimento delle masse popolari nella politica (e nella violenza politica), che precedette l’avvento del fascismo, cento anni fa. Il biennio 1943-45 della Nazione divisa nel conflitto mondiale, tra il Sud già liberato dagli Alleati e il Nord in guerra civile tra la Repubblica di Salò e la Resistenza antifascista, e poi del ritorno alla democrazia.
Il 1992-93, la scomparsa di un’intera classe dirigente, senza precedenti nell’Occidente del secondo dopoguerra, nei decenni successivi è stato raccontato con due contrapposte narrazioni. La prima recitava: c’era una volta un sistema politico florido, che ben governava e che godeva del consenso popolare, un colpo di Stato architettato da forze oscure tramite le inchieste dei pm lo ferì a morte, fu un golpe mediatico-giudiziario che ha ucciso la politica. La seconda replicava: c’era una volta un regime corrotto, dove i politici erano tangentari e mafiosi, arrivò un pool di giudici buoni a spazzarlo via, come se fossero vendicatori. Due letture, in fondo, consolatorie. Come se potesse essere solo questa la sede in cui scontrarsi, un’aula di tribunale. L’anniversario dei 30 anni ha lasciato il posto a una terza interpretazione, tipicamente italiana: la rivoluzione mancata. Intanto, la storiografia è stata trascinata in una dinamica di accusa e difesa, con la rinuncia a capire.
Eppure, la crisi del sistema politico non era stata provocata soltanto dalle inchieste giudiziarie. «Fu dovuta», ha affermato lo storico Paul Ginsborg (in “L’Italia del tempo presente, Einaudi, 1998, p.472), «tanto ai vizi della democrazia italiana quanto alle sue virtù, e risulterebbe incomprensibile se non si considerassero insieme gli uni e le altre».
L’ingresso dell’Italia nell’Europa di Maastricht fu firmato da Giulio Andreotti, presidente del Consiglio arrivato al settimo governo, il simbolo vivente dell’eternità del potere democristiano, da Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, socialista, e dal ministro del Tesoro Guido Carli, già governatore di Banca d’Italia e presidente di Confindustria, il più prestigioso rappresentante della tecnostruttura economica e finanziaria che si era alleata con la Dc e gli altri partiti di governo negli anni della Prima Repubblica. Un patto fondato sulle zone di influenza, una Jalta: ai partiti più votati il compito di portare consenso popolare alle strutture del capitalismo italiano, a Banca d’Italia, Mediobanca, Confindustria il ruolo di proteggere sul piano interno e internazionale le manovre di welfare della classe politica, anche quando sconfinavano nel clientelismo.
Nel 1992 il patto salta perché Maastricht è il vincolo esterno europeo che condiziona in modo determinante i margini di manovra della politica nazionale. Maastricht significa lotta all’indebitamento, rigore nei conti pubblici, fine della svalutazione delle monete, dei finanziamenti a pioggia e delle politiche di spesa per creare il consenso, tutto quello che negli anni precedenti aveva creato il benessere degli italiani. Significa la crescita di peso delle élites tecnocratiche europee e la messa fuori gioco del vecchio ceto politico, non più funzionale al nuovo ordine. In coincidenza con la fine della guerra fredda che in Italia, come aveva intuito il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si esprime con lo scongelamento dell’elettorato al Nord e con la rivolta civile contro la mafia nel Sud.
In questo contesto il sistema politico, la Repubblica dei partiti, come l’ha definita lo storico Pietro Scoppola, si percepisce come invincibile, immortale, e invece è già sopravvissuto a se stesso. Compie tutti gli errori possibili, non fa nulla per adattarsi alla nuova situazione. «La classe politica italiana sembra assoggettarsi senza resistenza a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di autoannientamento», scrive alla vigilia di Tangentopoli Edmondo Berselli sulla rivista “Il Mulino” (n.6, novembre-dicembre 1991).
Gli anni Ottanta
La Prima Repubblica era simbolicamente morta quindici anni prima di Tangentopoli, il 9 maggio 1978, con il ritrovamento di quel cadavere «acciambellato in quella sconcia stiva, quell’abbiosciato sacco di già oscura carne fuori da ogni possibile rispondenza con il suo passato e con i suoi disegni, fuori atrocemente», come lo descrisse il poeta Mario Luzi. Il presidente della Dc Aldo Moro cadavere dopo 55 giorni di sequestro da parte dei terroristi delle Brigate rosse, in una Renault parcheggiata a metà strada tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, sedi della Dc e del Pci, diventa il simbolo del mancato rinnovamento della Repubblica. Perché alla fine degli anni Settanta la politica era ancora la leva privilegiata per cambiare il sistema. Mentre subito dopo i partiti cominciano a sfarinarsi, a perdere contatto con la realtà. Arrivano gli anni Ottanta, con il loro indubbio vitalismo ma anche con la scomparsa delle illusioni collettive.
La rivoluzione conservatrice, l’edonismo reaganiano, la nuova era in Italia si annuncia con la pubblicità di un’emittente nata sulle ceneri di Telemilano, «torna a casa in tutta fretta/c’è il Biscione che ti aspetta».
Canale 5 comincia le sue trasmissioni il 30 settembre 1980, negli stessi giorni i giornali titolano: «Berlinguer a Mirafiori incita all’occupazione», per il Pci e il movimento operaio si sta consumando davanti ai cancelli della Fiat una storica sconfitta. Il berlusconismo, per ora solo televisivo, si presenta già in quell’alba di decennio insieme modernizzatore e clientelare, dinamico e stagnante, accende bisogni e desideri sconosciuti a colpi di “Drive In” e di “Dallas” e insieme sostiene incondizionatamente la più marmorea classe politica europea, seconda per durata soltanto alla nomenklatura sovietica. «Siamo omogenei al mondo che vede nei Craxi, nei Forlani e negli Andreotti l’accettazione della libertà», ripete Fedele Confalonieri.
In quell’invito a tornare a casa in tutta fretta dopo il decennio delle piazze, del terrorismo ma anche delle riforme, lo ha ricordato lo storico Guido Crainz, c’è la spinta ai consumi privati e c’è il galoppo del debito pubblico (il rapporto deficit/Pil tra il 1980 e il 1992 passa dal 55 per cento al 105,2), c’è il sogno di un secondo miracolo e c’è un’Italia arricchita dopo secoli di miseria che ora mira soltanto ad accumulare e a difendere ferocemente i diritti, o meglio, i privilegi acquisiti. «L’individualismo protetto», lo definisce il rapporto del Censis già nell’81. «La più ampia possibilità e libertà di esplicazione dei comportamenti individuali e la totale protezione pubblica, il massimo dell’individualismo con il massimo della protezione, quasi una società della bisaccia, della borsa a due tasche, tutt’e due comunque piene».
Il cambiamento che non c’è
Quando il 17 febbraio 1992 il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani e i suoi uomini fanno irruzione nell’ufficio del Pio Albergo Trivulzio a Milano su mandato del pm Antonio Di Pietro e il manager socialista Mario Chiesa viene colto con una mazzetta di sette milioni di lire in mano, ovvero 3500 euro di oggi, con una un’altra di 35 milioni di lire appena intascati (secondo una leggenda provò a sbarazzarsene gettandole nel water), i vecchi partiti già da tempo non riescono più a dominare questa doppia spinta. La richiesta di meno Stato, meno mano pubblica per redistribuire i redditi e più risorse per sé e per il proprio gruppo, territorio, clan, corporazione. E una richiesta di auto-rappresentanza che scavalca le mediazioni istituzionali, il fai-da-te della politica contro la Repubblica fondata sui partiti che sta degenerando nella paralisi e nella corruzione.
Spetta a due nuovi soggetti politici incarnare queste esigenze. La Lega di Umberto Bossi, strutturata come un esercito guerriero, con parole d’ordine, stendardi, divise, un capo militare, un’organizzazione leninista: cresce nel silenzio negli spazi lasciati incustoditi dalle vecchie appartenenze, quando a Roma se ne accorgono i barbari sono ormai alle porte. Il secondo soggetto, la società civile impegnata che dovrebbe rinnovare la sinistra, rimane una costellazione di movimenti, associazioni, giornali come la “Repubblica” di Eugenio Scalfari, settimanali di satira come “Cuore”, programmi televisivi come “Samarcanda” di Michele Santoro sulla Rai, incide sulle scelte ma non riesce a trovare uno sbocco politico se non in alcune occasioni (ad esempio il referendum sulla preferenza unica del 9 giugno 1991, che vede la vittoria a sorpresa del movimento di riforma della politica). Resta allo stato nascente, un adolescente che non cresce mai, come Peter Pan nella sua isola, è il Partito che non c’è (e che non ci sarà).
Con la caduta del muro di Berlino e con l’integrazione europa il costo dell’immobilismo diventa troppo alto. Saltano tutti i patti, quelli alla luce del sole e quelli inconfessabili, con il Nord produttivo e con la mafia. Imprenditori, poteri occulti, servizi segreti, clan mafiosi, tutti si mettono alla ricerca di nuovi punti di riferimento. Nessun partito della Prima Repubblica è attrezzato a intercettare questo cambiamento. Nonostante il consenso intorno al 30 per cento ancora raccolto alle elezioni del 5 aprile 1992, le antenne della Dc sono spente, i sensori non captano più nulla, gli italiani che pure l’hanno votata per decenni si sono trasformati in un pianeta ignoto.
«L’estrema flessibilità, la duttilità ameboide della Dc forlaniana e andreottiana», scrive ancora Berselli (“Il Mulino” n.1 gennaio-febbraio 1991), la capacità di adattarsi a qualsiasi situazione, si capovolge nel suo opposto: «una persistenza priva di futuro». Già nel 1991 è chiaro che «sarebbe estremamente difficile per una formazione radicata in modo così complesso nella realtà italiana qualificarsi soltanto nella chiave del primum vivere. Sarebbe un rischio troppo pesante se il realismo politico diventasse sordità verso il rumore di fondo che percorre la società: una galassia come la Dc, per quanto incline, diciamo così, a cedere alle tentazioni e agli automatismi del potere, non può trasformarsi definitivamente in un consiglio di amministrazione».
Ma c’è anche una ragione psicologica che spiega il suicidio del partito-Stato. Gli uomini della Dc, esaurito il comunismo dopo il 1989, si preparano a una nuova stagione di trionfi, commettono l’errore di percepirsi onnipotenti, nella presunzione che tanto nulla cambierà. E vengono così meno al loro dna originario che suggerisce: mai innalzarsi, chi si esalta sarà punito. «C’è un gigantesco errore di valutazione dell’animo del Paese», spiega Marco Follini, «tanto più grave in un partito che aveva fondato la sua fortuna sulla consapevolezza del proprio limite. Essere democristiani significava esercitare il potere con scrupoli. Negli anni Settanta la Dc pensava di essere destinata alla fine e trovò le energie per rinnovarsi, negli anni Novanta pensava di essere immortale e morì. Se amministri il potere con il senso della precarietà lo mantieni, se pensi che il potere ti salvi dalla precarietà lo perderai».
Non può essere il socialista Bettino Craxi il leader del cambiamento, nonostante abbia provato per dieci anni a lanciare la Grande Riforma. Gli ultimi anni sono tormentati dal presagio della catastrofe. In modo istintivo, quasi animalesco, avverte lo scricchiolio di una storia finita, ma reagisce con la pretesa di riconquistare Palazzo Chigi senza più nessun disegno. Non pensa più di essere il Mitterand italiano, non ha più alcuna velleità decisionista, vuole solo conservare se stesso, intuendo oscuramente che all’obiettivo del ritorno alla guida del governo è legata la sua sopravvivenza non solo politica. Identifica la sua persona fisica, la sua stessa esistenza con la permanenza al potere. Craxi si comporta da perfetto nichilista politico: uno che dopo di sé non intende lasciare eredi e delfini, trascina il partito da lui impersonificato verso il disastro. Dopo di me il Nulla.
Non riescono a rappresentare un’alternativa neppure i post-comunisti dilaniati dallo scontro interno, le varie famiglie della nebulosa democratica. Nel momento decisivo, il Pds che ha preso il posto del Pci non riesce a rappresentare la soluzione politica per uscire da Tangentopoli. Anzi, la paura di sparire, la crisi di identità provocata dal cambio del nome rafforza lo spirito di corpo, la fine dell’ideologia viene compensata dalla blindatura dell’apparato, chiuso e ostile a quanto si muove al di fuori: «riemerse un antico difetto del Pci, un certo grado di immobilismo e di mancanza di immaginazione nei confronti dei moderni movimenti sociali e della società civile. Per sfidare le molte corporazioni chiuse e spesso corrotte della società italiana sarebbe stata necessaria una rivolta, pacifica ma persistente. Stranamente, una simile rivolta era ormai diventata estranea alla cultura del Pci-Pds», ha notato Ginsborg. Non sarà la Quercia, nata per rinnovare la politica, a interpretare il cambiamento, ma un fiume carsico e alquanto caotico: il popolo referendario, il popolo dell’Ulivo, il popolo delle primarie.
Berlusconi il Gattopardo
In circostanze torbide, con le stragi e le bombe che portano morte e distruzione in Sicilia e fuori, con l’inserimento nel gran gioco – come in tutte le fasi di transizione della vicenda nazionale – dei tradizionali convitati di pietra, criminalità mafiosa, logge massoniche, poteri internazionali, le «menti raffinatissime» di cui parlava Giovanni Falcone, con una spettacolare e tutt’altro che improvvisata discesa in campo tocca all’ospite inatteso incarnare il nuovo. È Silvio Berlusconi a intercettare gli animal spirits del nord che vuole meno tasse e più mano libera, provvisoriamente attratto dalla Lega, e a offrire rifugio ai naufraghi del regime. È lui il vero beneficiario di Tangentopoli, l’unico condottiero dell’establishment che aveva conquistato le copertine dei magazine internazionali a restare indenne nelle inchieste giudiziarie fino a tutto il 1994. L’uomo del lavacro ipocrita con cui una parte della società si assolve dalle sue colpe e ricomincia da capo.
Berlusconi nel 1994 costruisce da zero il centrodestra, è il nuovo, ma – come è capitato in altre fasi della storia italiana – non è il diverso. Un Caimano che nei venti anni successivi ha devastato il residuo senso civico degli italiani, ma anche un Gattopardo.
Una parte consistente della società italiana (non tutta) ha cambiato classe politica ma non ha mutato mentalità. Anzi, si è fatta dolcemente cullare da una realtà virtuale, fondali di cartapesta, cieli azzurri, jingles, volti liftati. Una Nazione immobilizzata nell’eterno presente del Cavaliere, nel suo sorriso ormai senza età, nelle sue ossessioni personali che sono diventate le ossessioni di un intero popolo. Un altro potere che si è creduto imperituro, come i suoi predecessori, come tutti i poteri che arrivati al termine vorrebbero nient’altro che questo: durare per sempre, non morire.
Fino al drammatico risveglio. Un’altra fine, la fine della Seconda Repubblica, per certi versi non meno traumatica della Prima. Il ventennio berlusconiano si è concluso con l’Italia sull’orlo del fallimento non solo economico, come nel 1992 dell’attacco speculativo alla lira e della manovra del governo Amato da 93mila miliardi, il prelievo forzoso dai conti correnti, lo spettro della bancarotta. Ancora una volta la classe politica ha abdicato ed è stata costretta a chiedere l’intervento di un commissario esterno. Ancora una volta è il Quirinale l’unica istituzione a restare in piedi e a gestire la transizione.
Nel 1993 la decisione di Scalfaro di affidare la guida del governo a Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del Consiglio non parlamentare della storia repubblicana, rappresentò un compromesso con i partiti, un governo tecnico-politico che non bastò a salvare le formazioni della Prima Repubblica.
Nel 2011 un uomo che fin dalla giovinezza ha scelto la politica come ragione di vita, il presidente Giorgio Napolitano, ha chiamato alla guida del governo l’ex commissario europeo Mario Monti, chiamato per sua stessa ammissione a salvare la Patria, dalla tempesta finanziaria, dal discredito internazionale, dalla disgregazione interna, il suo arrivo a Palazzo Chigi è apparso come l’esito di una crisi durata vent’anni, in cui ogni tentativo di rinnovamento è stato sistematicamente frustrato.
Draghi l’occasione perduta
Nel 1992 la vecchia classe dirigente fu spazzata via in pochi mesi da un elettorato che non sopportava più il prezzo della corruzione e dell’illegalità di un sistema bloccato. Gli inquisiti erano assediati per strada e nei ristoranti per i reati, veri o presunti, che avevano commesso, si faceva ancora la distinzione tra politica buona e politica cattiva. Venti anni dopo, nel 2012, i parlamentari eletti in liste bloccate hanno mortificato le aule parlamentari in un circo: capriole, nani e ballerine, comprati e venduti, deputati con la videocamera che spiano i colleghi, buffoni variopinti che hanno allontanato sempre più la politica dalla società. Conclusione: il Capro espiatorio è diventata la politica in blocco. La politica è una Casta contestata per il solo fatto di esistere. Un costo inutile. Da eliminare. Il credo del Movimento 5 Stelle prima maniera, quello del Vaffa day, di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio, il mito dell’ “uno vale uno” e della democrazia diretta.
Tra la seconda metà degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti anche questo mito è entrato in crisi. Il trentennio si chiude con la crisi più grave di democrazia, perché per la terza volta in trent’anni il sistema è entrato in crisi ed è stato costretto a ricorrere al commissario esterno, chiamato ancora una volta dal presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, dopo Scalfaro e Napolitano. Mario Draghi, dopo Ciampi e Monti. Draghi che nel febbraio 1991 era stato chiamato da Carli come direttore generale del ministero del Tesoro, nominato dal governo Andreotti. In questa veste Draghi, all’epoca 45enne, incontrava quasi tutte le settimane l’ultimo presidente del Consiglio della dinastia dei democristiani a Palazzo Chigi e di quella classe dirigente arrivata al tramonto conserva tuttora una impressione indelebile. Andreotti tutto sapeva, tutto capiva, nulla affrontava. Fino alla dissoluzione.
Nel 2021-2022 il patto finito nel 1992 tra politica e tecnostrutture è sembrato riproporsi con il governo di unità nazionale di Draghi, ma si è spezzato ben prima della caduta del governo nel mese di luglio. La brusca interruzione è arrivata con il voto sul Quirinale del gennaio 2022, quando a Draghi è stata negata la carica più alta della Repubblica che invece fu raggiunta da Luigi Einaudi e da Ciampi. Draghi sarebbe arrivato al Quirinale direttamente da Palazzo Chigi, creando un precedente rischioso. Ma il Patto sarebbe stato riscritto, ai massimi livelli. Il corollario necessario era che Draghi dal Quirinale avrebbe fatto da regista alla ricostruzione di un sistema politico più solido e strutturato.
Partiti senza consenso, e dunque insicuri, hanno invece faticato a scrivere il nuovo compromesso votando Draghi per il Quirinale e alla fine lo hanno rigettato. Il governo dell’ex presidente della Bce è finito in quel momento. La successiva crisi d’estate è stata solo una conseguenza dello strappo di gennaio. L’insofferenza reciproca era arrivata allo sfinimento. I partiti, il corpaccione politico, rappresentato dai tipici esponenti del ceto parlamentare, hanno vissuto Draghi come un usurpatore, da rimandare il più presto possibile a casa. Il premier al tempo stesso ha sviluppato una certa allergia per le liturgie di Palazzo e si è rifiutato di coprire con il suo ruolo il vuoto politico: non poteva essere lui a risolvere il deficit di identità dei partiti. La crisi del luglio 2022 è stato l’esito di un incontro fallito, un’altra occasione perduta.
La formazione di Giorgia Meloni
Ora arriva al governo Giorgia Meloni. Una che nel 1992 ha cominciato a fare politica, a 15 anni, a Roma. « Erano mesi bui e di grandi tensioni, la classe politica era giustamente sotto accusa e l’inchiesta di Mani Pulite stava già falcidiando i principali partiti di quella che presto sarebbe stata archiviata col nome di Prima Repubblica», ha scritto nella sua già citata auto-biografia, pubblicata un anno fa. «Ero stata a una manifestazione del Fronte della Gioventù qualche tempo prima, trascinata da una compagna di scuola. Avevano inscenato una rappresentazione in cui i ragazzi erano travestiti da alcuni dei personaggi principali dei partiti dell’epoca in tuta da carcerato, a simboleggiare una Prima Repubblica che aveva costruito la sua fortuna depredando le future generazioni. Mi ero sentita a mio agio… Il Movimento Sociale Italiano era del tutto estraneo alle ruberie e alla corruzione che venivano scoperchiate in quegli anni e fu inevitabilmente protagonista di quella tumultuosa stagione di passaggio».
Poche righe, alquanto auto-assolutorie. Il Msi nel 1992 era un partito vicino all’estinzione. Nell’ottobre 1992, in coincidenza con i settant’anni dell’anniversario della marcia su Roma e della conquista del potere mussoliniano, il segretario Gianfranco Fini aveva organizzato una manifestazione a Roma, si chiedeva come fosse «possibile che qualche saluto romano abbia creato tanta agitazione», affermava che «il fascismo appartiene a tutti gli italiani e si sta rivalutando storicamente anche a prescindere dal ruolo del Msi». Il partito, come ha scritto Giorgia Meloni, provava a cavalcare le inchieste della magistratura in chiave anti-partiti della Prima Repubblica (anti-fascisti). I missini si battevano nelle piazze e nelle assemblee per rappresentare, a loro modo, il nuovo che avanza, la guerra alla corruzione. Con qualche incidente di percorso.
«Arrendetevi, siete circondati!». «Ma quale immunità parlamentare, il popolo, il popolo vi deve giudicare!», gridano. E anche: «Ruba il socialista, ruba il comunista, l’Italia che ruba è antifascista!». Sono le tre del pomeriggio del primo aprile 1993, cinquant’anni dopo la caduta del fascismo un centinaio di militanti del Fronte della Gioventù accerchiano l’ingresso principale della Camera dei deputati, in piazza Montecitorio, gridano «elezioni subito!». «Scrivete pure che siamo fascisti, ci fate un piacere», specificano i manifestanti ai cronisti. Si tengono per mano, fanno cordone davanti alla porta da cui entrano e escono i deputati, sotto l’occhio compiaciuto dell’onorevole Teodoro Buontempo, detto Er Pecora, il più amato e votato tra i missini romani. Con lui ci sono altri parlamentari: Maurizio Gasparri, Giulio Maceratini, Nicola Pasetto, Raffaele Valensise. Le forze dell’ordine, sguarnite, si schierano di fronte ai manifestanti che nel frattempo sono decisamente avanzati verso il portone. Qualcuno impugna una mazzafionda, c’è un istante di silenzio, sibila una monetina o una biglia, va a scagliarsi contro il vetro smerigliato dell’ingresso. La porta del Parlamento è colpita come da un proiettile, incrinata, traforata. Profanata dai manifestanti della destra missina, da sempre esclusi dall’arco costituzionale. Quella sera due magistrati romani che si occupano dell’estrema destra, Giovanni Salvi e Pietro Saviotti, applicano l’articolo 289 del codice penale: turbativa dell’attività parlamentare. Avvisi di garanzia per Teodoro Buontempo, Giulio Maceratini, Adriana Poli Bortone, Maurizio Gasparri, Ugo Martinat, Altero Matteoli, Giulio Conti, Nicola Pasetto e Domenico Nania. La sera vengono perquisite le abitazioni di due giovani dirigenti missini, il consigliere regionale Gianni Alemanno e il capo ufficio stampa del partito Francesco Storace. «Un comportamento assurdo, ingiustificato, sproporzionato, arbitrario della polizia, una indebita prevaricazione e persecuzione», protesta il segretario Fini, che trova normale cingere d’assedio il Parlamento. «Una goliardata» per Gasparri. I più duri contro l’attacco del Msi a colpi di fionde e di monetine sono il deputato dc Pier Ferdinando Casini («temo che sia soltanto l’inizio») e il leader della Lega Umberto Bossi: «Vengano avanti i fascisti, ci pensiamo noi a difendere il Parlamento».
Entrambi saranno alleati di Fini appena otto mesi dopo, nel centrodestra fondato da Berlusconi. Molti degli inquisiti nei mesi e negli anni successivi saranno ministri, vice-ministri, capigruppo. Oggi Ignazio La Russa è presidente del Senato e Gasparri suo vice. Sono la guida politica del Paese.
È questo il contesto in cui si forma la giovanissima Giorgia Meloni. Alla manifestazione di esordio, l’imprinting, i politici erano «in veste da carcerato». Ha fatto parte di quella generazione della Seconda Repubblica, fondata sulla dissoluzione della Prima e su un’auto-assoluzione collettiva. Il Msi non fu il partito «inevitabilmente protagonista» di quella stagione, come lei scrive. Fu un partito subalterno e trainato da Silvio Berlusconi, che di Mani Pulite si avvantaggiò e poi si sbarazzò, per poi diventare il nemico giurato della magistratura. Dal Msi nacque Alleanza nazionale e poi Fratelli d’Italia. Tutte fasi in cui la destra post-fascista si è ritrovata al governo, a differenza ad esempio della destra radicale francese o spagnola, ma come partito alleato minore di Berlusconi. Oggi quel rapporto di forza si è invertito. Berlusconi, invecchiato e indebolito, è costretto suo malgrado a inseguire la nuova premier, giovane e donna. Uno degli scontri si è consumato sul ministero della Giustizia, dove Berlusconi avrebbe voluto un suo nome e Meloni ha scelto un ex magistrato, Carlo Nordio, che nel 1992-93 rappresentò un modello alternativo al pool delle toghe di Milano guidate da Di Pietro per cui gli amici della Meloni scendevano in piazza (e chissà se lei c’era, ma perché una militante giovane e appassionata come lei non avrebbe dovuto esserci?).
Trent’anni dopo
Il cerchio si chiude, dunque. Il trentennio della globalizzazione in Italia ha significato crollo del ruolo della politica e smantellamento di un sistema industriale largamente costruito con la mano pubblica. Quel che nel 1992 è stato spazzato via non è mai stato ricostruito. Per la sinistra, ma anche per la destra, sono stati trent’anni di subalternità, di vuoto.
Nel 2022, dopo anni di confusione, c’è il ritorno di una professionista della politica al vertice del governo, nel segno della destra. È questa la vera novità, una sfida per tutti i partiti: il ritorno del ritorno dello Stato e delle politiche pubbliche e nazionali, difficili da comporre in Europa. E, in questo contesto, il ritorno alle identità politiche, per colmare il vuoto di rappresentanza. Ricostruire la politica per riscrivere un nuovo patto, sul modello di quello che ha tenuto in piedi la Prima Repubblica. Nel quadro di una democrazia europea sempre più fragile, a rischio, come dimostra il caso dell’Inghilterra ma anche la debolezza della leadership tedesca.
Trent’anni fa i paesi dell’Europa orientale furono la pietra di paragone della fine della Prima Repubblica. Una nomenklatura inamovibile, di stampo sovietico, una alternanza impossibile, e poi la nascita di nuove leadership e di nuovi partiti in continuità con il passato. Nel 1989-90, quando cadde il muro di Berlino, il presidente della Repubblica Cossiga osservò che in Germania c’era un muro di mattoni, in Italia un muro immateriale ma altrettanto solido. Era stata l’Italia, dopo la Germania, il paese europeo più segnato dalla guerra fredda e dagli accordi di Jalta del 1945. Il 1992 fu l’effetto della fine di quel sistema.
In anni più recenti l’Italia è stata vicina a diventare il paese più legato al modello putinista dell’Europa occidentale: la democrazia sganciata dal liberalismo, che è il potere di controllare e di limitare i governanti. «Se si prende in considerazione l’estrema debolezza della fiducia nei confronti delle istituzioni della democrazia parlamentare e delle élites politiche (ritenute corrotte e inefficienti), si vede emergere nella società una base per un potere forte che non sia soggetto a costrizioni da parte dei contropoteri dello Stato di diritto. Insieme al disincanto nei confronti della democrazia, il secondo impulso favorevole alla deriva illiberale o autoritaria è il nazionalismo. L’alter ego della sovranità popolare è la sovranità nazionale, che il potere forte deve proteggere sia dalle ingerenze della Ue sia dall’ondata migratoria», ha scritto il politologo ceco Jacques Rupnik in “Senza il muro” (Donzelli, 2019). «Nel 1989 pensavamo che l’Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l’avvenire dell’Europa», ha rivendicato il premier ungherese Viktor Orbán, citato da Rupnik. Noi, cioè l’Ungheria e la Polonia, i primi paesi a sganciarsi dall’orbita dell’Unione sovietica nell’89, anticiparono il cambiamento e oggi guidano l’onda sovranista nell’Unione europea. Il governo di Varsavia e il partito nazionalista Diritto e Giustizia sono i più vicini a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Con i sovranisti di Polonia e di Ungheria c’è la condivisione di un impianto ideologico nazionalista che è la exit strategy dal ciclo lungo aperto da Maastricht dopo la caduta del muro di Berlino: la prevalenza degli Stati nazione sull’Unione di Bruxelles. Un mix di atlantismo e di difesa delle identità tradizionali.
Il no all’invasione russa dell’Ucraina di Giorgia Meloni l’ha spinta lontano dal filo-putinismo di alcuni suoi alleati di governo, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ma il progetto di putinizzazione dell’Italia, di far scivolare l’Italia verso il modello orientale, è stato condotto in questi anni con grande spregiudicatezza e non si può escludere che riparta.
Negli ultimi anni l’Italia ha oscillato tra il commissariamento tecnocratico e il populismo, due esperienze che hanno fallito nell’obiettivo di restituire all’Italia un sistema politico stabile e coerente.
La prima parte dell’ultima legislatura, il governo 5 Stelle-Lega presieduto da Giuseppe Conte, ha rappresentato il punto più alto dell’anti-politica e l’inizio della sua fine. Oggi il Movimento 5 Stelle, guidato da Conte, è l’opposto del soggetto virtuale delle origini, rappresenta gli interessi più corposi e materiali dell’elettorato. il Sud del reddito di cittadinanza, il ceto medio impaurito dall’impoverimento, si propone come un sindacato dei cittadini, in difesa dei diritti acquisiti.
La seconda parte è stata caratterizzata dall’unità nazionale di Mario Draghi. Ancora una volta la tregua offerta dal governo presieduto dall’ex banchiere centrale non è servita al sistema dei partiti per ricostruire la loro tavola dei valori e la loro presenza nella società. Eppure, trent’anni dopo il 1992, questo serve, partiti in grado di offrire una nuova mediazione, sulla base di valori e interessi. La pandemia, la guerra in Ucraina, l’emergenza energia, la recessione in arrivo, ripropongono l’esigenza per la politica di avere un corpo, cioè l’ossatura fisica di una nuova rappresentanza. La destra, da sempre, conosce bene il proprio elettorato e sa come rappresentarlo e tutelarlo. Il Pd, in crisi di identità, ha una composizione sociale in via di erosione, che è la base del declino elettorale.
Giorgia Meloni è in questo punto di incrocio. Incarna un’identità politica e culturale di indubbia matrice nazional-reazionaria. È una professionista della politica, e della politica di partito, non ha fatto altro nella vita. In più è romana, profondamente romana, da sempre a contatto quotidiano con i palazzi della politica. La sua non è dunque la vittoria dell’anti-politica modello Movimento 5 Stelle. Le biografie dei nuovi ministri stanno lì a dimostrarlo: in undici hanno fatto parte di un qualche governo Berlusconi del passato. Anche questo è un cerchio che si chiude: sono i figli, ormai invecchiati, del 1992-93. Ma Meloni porta con sé il senso di esclusione storico del post-fascismo italiano, nonostante tanti anni di sdoganamento e di partecipazione alla distribuzione delle poltrone di governo e di sottogoverno. Una carica di rivincita e di riscossa, di vittimismo (nella narrazione meloniana il mondo è popolato dalla sinistra che vuole cancellare le radici, le tradizioni), che non si concilia con l’ambizione di governare.
La Seconda Repubblica che trent’anni fa aveva suscitato tante speranze è stato «un travestimento del vecchio ordine, più che una premessa di una nuova realtà», come aveva scritto Scoppola già nel 1991. Una falsa rivoluzione che ha condannato un’intera generazione, la generazione nata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, a vivere in uno show ripetitivo. La Terza repubblica, al posto della Seconda fallita, non è mai nata. E non la si ricostruirà con un’idea di Nazione statica, collocata fuori dalla Storia, affidata a ipotetici patrioti e a salvatori della Patria. Ma con un’idea di democrazia, che in apparenza è più fragile, più mite, ma forse più tenace.