Qual è la posizione attuale della Corea del Sud, del Giappone e della Cina nella supply chain delle batterie?
Paolo Cerruti
La posizione di questi paesi è dominante sia nella ricerca e sviluppo che nelle competenze di industrializzazione che permettono di accedere agli effetti di scala necessari per essere competitivi. Tuttavia, nel corso dei quasi trent’anni attraverso i quali l’industria delle batterie si è sviluppata, l’egemonia tecnologica e della supply chain si è progressivamente spostata. Nata in Giappone, l’industria ha attraversato una prima trasformazione quando i Coreani (Samsung, LG, SK) hanno creato effetti di scala. Infine, si è mossa verso la Cina, dove tutt’ora vi sono le più grandi e dinamiche realtà industriali in questo settore (aziende come CATL, EVE, BYD).
Quali sono stati gli ingredienti dell’ascesa cinese nel settore?
Per capirlo, bisogna guardare alla sua storia. L’industria delle batterie al litio è nata in Giappone all’inizio degli anni ’90, con Sony che all’epoca era un leader nell’innovazione tecnologica, (CamCorder, Walkman, ecc.). Sony, seguita a ruota da Panasonic, Sanyo, NEC ed altri nomi di primo piano dell’elettronica di consumo si rese conto dell’importanza strategica di integrare verticalmente lo sviluppo e la produzione di batterie. Come accadrà in molte altre industrie, semiconduttori e telefonia cellulare per citare gli esempi più celebri, il Giappone non ha saputo mantenere una competitività industriale di fronte al pragmatismo coreano. Sono quindi nati Samsung Electronics, LG ed altre realtà che, pur non avendo inizialmente l’eccellenza tecnologica nipponica hanno saputo creare degli effetti di scala che hanno permesso di abbattere i costi e costrinsero i giapponesi ad accontentarsi di nicchie di mercato.
Eravamo all’inizio degli anni 2000, in un’epoca dove le parole chiave erano globalizzazione e fabless. Alcatel, Nokia, Eriksson cercavano disperatamente una competitività perduta localizzando la produzione in Asia. E poi arrivò Apple con i suoi 750.000 iPhone prodotti al giorno, in Cina. Una forte propensione all’imprenditoria ed al rischio, generosi sussidi nazionali ed una base di costi fissi molto bassa ed ecco che il baricentro della produzione e dell’esperienza industriale si sposta nuovamente: dalla Corea, alla Cina.
Se l’eccellenza di ricerca e sviluppo resta in gran parte coreana ed americana, la Cina ha dato ancora una volta prova di saper re-industrializzare su grande scala delle tecnologie complesse, senza necessariamente essere leader sulla tecnologia.
In che modo la Cina opera per consolidare la propria posizione a livello internazionale e come gli Stati Uniti vogliono minare il suo primato?
Il Governo cinese ha decretato che l’industria delle batterie è oggetto di “interesse nazionale strategico”. Questa scelta è in gran parte motivata dalla volontà di Pechino di accelerare la transizione verso una mobilità 100% elettrica per ragioni di salute pubblica, ma non si tratta solamente di una nomenclatura burocratica. È un vero e proprio arsenale di misure per incentivare la crescita dell’industria, facilitandone gli investimenti, creando poli di eccellenza accademica, utilizzando aziende e società finanziarie controllate dal governo per prendere il controllo di nodi importanti della supply chain, ma anche cercando di acquisire proprietà intellettuale, e non sempre in maniera trasparente.
La Cina ha una posizione pressoché dominante sulla fornitura di prodotti chimici e materiali necessari alla produzione di batterie. Si tratta di prodotti chimici che l’Europa e gli Stati Uniti hanno smesso di produrre da decenni. Creduti banali, inquinanti, che richiedono grandi quantità di energia per essere prodotti e che nessuno voleva più. La Cina controlla una grande parte della supply chain delle materie semifinite per le batterie, pur non essendo, in molti casi, produttore delle materie prime e minerali necessari per la sintesi di questi componenti.
Gli Stati Uniti lo hanno realizzato solo recentemente, e la reazione è stata violenta. È sufficiente leggere l’Inflation Reduction Act passato dall’amministrazione Biden il 16 agosto 2022 ed il paniere di sussidi all’investimento distribuiti dal Department of Energy. Gli Stati Uniti stanno mettendo in atto una politica protezionistica, il cui principale obiettivo è Pechino ma le cui ramificazioni si faranno sentire fino in Europa. Localizzare ad ogni costo, spendere soldi pubblici per favorire la nascita e lo sviluppo di campioni nazionali, crescita dei dazi su materiali importati ed infine un controllo stretto delle “rules of origin”.
Nella complessità della produzione di batterie, quali sono i principali colli di bottiglia da considerare, a livello tecnologico e geografico?
La guerra è aperta, le batterie – come i semiconduttori – sono diventate uno strumento essenziale del braccio di ferro geopolitico Est-Ovest, ma le ramificazioni sono planetarie: Australia, Africa, America del Sud sono diventati parti della scacchiera su cui l’Occidente e la Cina si affrontano per assicurarsi influenza sui depositi di nichel, litio, rame, grafite e cobalto.
Una recente sentenza di un tribunale coreano, passata per lo più inosservata, ha annullato un accordo di collaborazione e Technology transfer fra Redwood Materials, società americana basata in Nevada, e L&F, produttore coreano di polveri per catodo con l’argomento che la tecnologia delle batterie fa parte del portafoglio di tecnologie protette dall’interesse nazionale. Si tratta qui di annullare un accordo commerciale fra due entità private appartenenti a nazioni amiche ed alleate!
Ma sarebbe un grave errore considerare le materie prime come l’unico collo di bottiglia. A breve e medio termine, 5-7 anni, la guerra si vincerà sull’accesso ai talenti con esperienza industriale in questo settore.
Fabbricare batterie è costoso e complesso, ma fabbricarne in grandi quantità a costo competitivo e garantendone l’integrità e la qualità richiede competenze molto specifiche, e gli asiatici hanno due decenni di vantaggio sull’Occidente.
Quali discontinuità tecnologiche possono avvenire nell’industria delle batterie, in grado di cambiare le carte in tavola a livello geopolitico?
Non vedo delle rotture tecnologiche che possano, nei prossimi dieci anni, cambiare le carte in tavola a livello geopolitico, almeno per quello che riguarda l’industria dei trasporti che continuerà a fare appello a formulazioni a base di litio. È comunemente accettato che la prossima generazione di batterie ad alta densità sarà quella dello “stato solido”, che permette di immagazzinare più energia ed in maniera più rapida a parità di volume e di massa. Benché esistano diverse varianti in gara per avere il primato tecnologico, tutte, senza eccezioni, fanno appello a derivati del litio, nickel ed altri metalli non ferrosi. L’unica eccezione è sulle tecnologie per applicazioni stazionarie destinate a creare tamponi indispensabili per l’incremento della parte di rinnovabili mantenendo la rete distribuzione stabile. Qui, le tecnologie a base di sodio hanno un grande potenziale e possono eliminare certe dipendenze strutturali. Ma siamo ancora a 5-10 anni da una applicazione in grande scala.
Per quali ragioni avete lasciato Tesla per dare vita a Northvolt? In cosa si differenzia dalle altre società? Quali sono le maggiori opportunità e i maggiori ostacoli per la sua crescita?
Non ho lasciato Tesla per creare Northvolt, ma nei mesi successivi alla mia uscita da Tesla abbiamo cominciato a lavorare quelle che sarebbero diventate le basi per Northvolt. Venivamo dall’esperienza della pianificazione di Gigafactory 1 in Nevada. Tesla non aveva nessuna intenzione, all’epoca, di avventurarsi nella produzione di batterie in proprio, conscia della complessità del prodotto, dell’intensità degli investimenti richiesti e della scarsa disponibilità di competenze. Tuttavia, nel 2013, quando a Tesla si cominciò la prima bozza di business plan per Model 3, ci si rese conto che l’intera produzione mondiale di batterie al litio corrispondeva a quello che il terzo modello della gamma avrebbe richiesto su base annua. In sostanza, non c’era scelta: o prendevamo in mano il nostro destino, o Model 3 non sarebbe esistita. E così nacque Gigafactory 1, collaborazione tra Tesla e Panasonic. Nel 2016, quando cominciammo a studiare la fattibilità del progetto che sarebbe diventato Northvolt, il mondo dell’automobile era in pieno scandalo dieselgate. Volkswagen cercava disperatamente di rifarsi un’immagine, Herbert Diess (AD di Vokswagen all’epoca) prende delle decisioni drastiche e coraggiose, puntando tutto sull’elettrico. BMW, Daimler, Porsche seguono e gli annunci si moltiplicano proprio nel momento in cui cominciamo un roadshow per incontrare i comitati esecutivi delle principali case automobilistiche europee. Rapidamente realizziamo quanto l’industria sia ignara dei rischi e delle complessità delle supply chains delle batterie. Noi arriviamo con un’idea e la credibilità data dall’essere stati parte del management team che ha dato legittimità a Tesla.
L’idea era e resta semplice: creare il prodotto più sostenibile al mondo in KgCO2e/KWh e integrare verticalmente una grande parte della sintesi delle materie attive per avere un vantaggio competitivo. Produrre batterie e ancor più i materiali attivi richiede molta energia. Siamo andati a cercare la localizzazione per i nostri stabilimenti là dove l’energia è 100% idroelettrica e una delle meno care al mondo. Questa è una delle ragioni principali per cui siamo in Svezia.
La più grande opportunità che abbiamo è l’aver compreso per primi l’importanza del carbon footprint del prodotto: per questo abbiamo piazzato le nostre pedine 3 o 4 anni prima degli altri. Il mercato è enorme e c’è ancora spazio per crescere, siamo lungi da una situazione di saturazione della domanda. Il principale ostacolo è riuscire a crescere in maniera organica ma strutturando l’azienda, che è passata da 2 a 4000 persone in 5 anni, è composta da 114 nazionalità diverse e opera in 5 paesi e due continenti. Il più grande ostacolo siamo noi stessi, la nostra capacità di crescere senza ricorrere alla forza bruta ma con finezza, utilizzando la forza dell’avversario, come nelle arti marziali.
L’Unione Europea si è data parametri di riduzione delle emissioni che hanno suscitato discussioni e proteste nell’industria e nei governi, anche in relazione alla vendita esclusiva delle auto elettriche. Quali saranno gli effetti geopolitici delle decisioni normative europee, nel breve termine? Quali aspetti della regolazione e della struttura industriale dovrebbero essere cambiati, per aumentare la competitività europea?
L’industria che ha protestato è quella dei produttori di auto che non sono pronti e che hanno limitato gli investimenti, in diniego della necessità di rispettare gli accordi di Parigi. La mobilità elettrica è non solamente necessaria, ma tecnologicamente superiore. È un prodotto migliore per il consumatore e quindi assisteremo ad un declino darwiniano ed inesorabile del motore termico. È solo una questione di una decina d’anni.
Il rischio per l’industria europea è duplice.
In primo luogo, una forte dipendenza da fornitori che sono di fatto parte di un oligopolio asiatico. Si viene quindi a creare una grande vulnerabilità della filiera, perché i governi nazionali hanno poca presa sulle politiche di investimento di queste società.
In secondo luogo, le batterie possono rappresentare anche il 40% del costo di produzione di un’auto e quindi c’è una giustificata preoccupazione che una porzione significativa della creazione di valore passi di mano. È quindi essenziale preservare e sviluppare campioni nazionali che permettano lo sviluppo di una reale indipendenza tecnologica ed industriale. Tuttavia, io non credo a politiche di incentivi sistematici sul lungo termine. Gli effetti di scala e il riciclo delle batterie sono le chiavi per abbassarne il costo – che è l’unico reale ostacolo alla democratizzazione della mobilità elettrica – ma per innescare il sistema, le politiche di incentivi, sgravi fiscali e soprattutto accompagnamento all’investimento industriale sono essenziali.
Per esempio, se guardiamo il caso di alcuni Paesi, come l’Italia, il più grande ostacolo all’insediamento di un tessuto produttivo a larga scala è il costo dell’energia, e questo era vero ben prima della crisi russa. Fabbricare batterie richiede una quantità enorme di energia e, per essere competitivi, si deve restare sotto ai 60 Euro a MWh. Ma un’energia buon mercato non è sufficiente: occorre anche che l’energia sia prodotta con il minimo carbon footprint possibile. A Northvolt, abbiamo già più che dimezzato le emissioni per KWh di capacità prodotta ed azzerato le emissioni del ciclo di produzione proprio. Quello che resta è nella supply chain e vogliamo arrivare a ridurre del 90% le emissioni di gas a effetto serra da qui al 2030.
Quali sono gli elementi di forza e debolezza delle iniziative europee già in atto, dall’alleanza delle batterie ai programmi sulle materie prime critiche? Se dovessimo costruire un programma a breve e medio termine per l’Unione Europea nella supply chain delle batterie per ridurre la dipendenza dall’oligopolio asiatico, quali sono i punti essenziali su cui dobbiamo concentrarci? Visto il percorso cinese e l’importanza della chimica anche nella supply chain dei semiconduttori, l’UE dovrebbe pensare a una reindustrializzazione chimica?
Senz’altro, la reindustrializzazione della chimica in Europa è indispensabile per realizzare l’indipendenza tecnologica nel settore delle batterie ed in quello dei semiconduttori. Il lavoro minuzioso che abbiamo fatto a Northvolt sulle deep supply chains, ovvero la cartografia dettagliata di tutti gli anelli della catena del valore che sono necessari per realizzare i materiali per batterie, evidenzia che la dipendenza dall’Asia (ed in particolare dalla Cina) è onnipresente. E spesso non ci sono immediate soluzioni di rimpiazzo.
L’Europa ha finalmente aperto gli occhi. Il lavoro che Innoenergy e Diego Pavia hanno fatto per educare la Commissione e i leader politici è lodevole ma l’infrastruttura amministrativa è ancora debole e ha tempi di reazione troppo lenti. L’Europa non ha, di per sé, dei fondi da stanziare e distribuire ma utilizza il framework dell’IPCEI (https://www.ipcei-batteries.eu/) per consentire a Stati Membri di fornire sovvenzioni dirette a consorzi privati. Queste sovvenzioni rappresentano un’eccezione autorizzata alle restrittive norme in vigore sulla concorrenza (che invece non esistono in Cina o negli Stati Uniti, per citare due paesi che stanno investendo somme astronomiche nello sviluppo accelerato di una supply chain locale). Il risultato è che solo i paesi che hanno grandi disponibilità economiche possono permettersi di incentivare una nuova filiera. Senza sorprese, ai vertici della spesa ci sono la Germania e la Francia.
Ursula von der Leyen ha dichiarato che il 2023 sarà l’anno europeo delle competenze e della formazione continua. Se nel medio termine la battaglia è sulle competenze, su cosa dovrebbe basarsi un’ambiziosa skills strategy per la supply chain delle batterie?
Il problema a cui siamo confrontati sulle batterie non è la carenza di competenze scientifiche d’eccezione. Abbiamo, in Europa, alcune tra le migliori università e centri di eccellenza accademica. La carenza riguarda gli esperti in progettazione ed industrializzazione, i tecnici e gli operai specializzati. Queste sono discipline che, di norma, non sono l’oggetto di corsi di insegnamento universitario. Si tratta di know how che le società custodiscono gelosamente ed insegnano sul terreno, nel corso di una carriera intera.
Si deve ripensare alla maniera di raccogliere, formalizzare e distribuire sapere. La sfida è creare dei corsi che permettano agli studenti di assimilare in qualche mese quello che avrebbero imparato in qualche anno lavorando in azienda. Più stages, studio in alternanza, rivalorizzazione di filiere professionali sono solo alcuni degli strumenti che permetteranno di sormontare il più grande ostacolo che questa industria ha davanti a sé.