- Tra Palazzo Chigi e i ministeri sono circa 300 le nomine necessarie a coprire i posti apicali. La chiave, per Meloni, è nella distribuzione degli alti burocrati, fondamentali per gestire la macchina ministeriale.
- Alle sue truppe, la presidente di Fratelli d’Italia et probabile prima Presidente del Consiglio donna in Italia, ha dato ordine di restare in silenzio. Niente festeggiamenti da parvenu della politica, niente risse sui social, niente sbrodolamenti salviniani in tv.
Chiusa nella sede di partito a via della Scrofa, “il bunker” come la chiamano ormai gli addetti ai lavori, Meloni lavora alla squadra di governo. Comporre la lista dei ministri non è facile, anche perché le attenzioni sono concentrate su di lei, che sconta la provenienza politica e le quotidiane dichiarazioni incendiarie che la caratterizzavano fino a qualche anno fa, e l’asticella è stata posta in alto. Le frasi «Faremo un governo di alto profilo» unite all’avvertimento agli alleati e al suo partito «Se non abbiamo profili all’altezza di un determinato ministero non c’è nulla di male a cercare un tecnico», fanno capire il tentativo di accreditarsi in un mondo, quello dell’establishment italiano ed europeo, che di Meloni è sempre stato uno dei bersagli preferiti. Il tentativo, almeno a partire dalle prime ore dopo la vittoria, è quello di applicare il tecnosovranismo: un governo con una forte guida politica ma gestito, nella quotidianità, da persone con una consuetudine con la macchina amministrativa italiana, con l’establishment interno ed internazionale. Insomma, se si analizzano i suoi primi passi, Meloni mostra di aver compreso che la sovranità non è più soltanto verticale, il mandato popolare non è sufficiente per governare con profitto, ma serve anche la sovranità orizzontale, cioè il riconoscimento dei pari grado internazionali e delle strutture sovranazionali che prendono decisioni che si riverberano sugli Stati che ne fanno parte 1.
Dunque, persino Giorgia Meloni ha capito che non si può governare contro l’Europa, anche se l’Europa le va contro. Ci sono cose che la leader di Fd’I non direbbe più. Come certe uscite euroscettiche sull’Euro rilasciate al Foglio nel 2018: «Vogliamo porre il problema di una moneta unica che non funziona e dire chiaramente ce se sarà necessario sosterremo lo scioglimento concordato della zona euro. Anche perché l’euro rischia di crollare comunque, è l’unica moneta non tarata sulla media delle economie europee, rafforza chi è già forte e indebolisce chi è debole. Persino le banche d’affari studiano l’uscita dall’euro, da Nomura a Jp Morgan. Per questo dico: il dibattito è molto ideologico, valutiamo se l’euro sta funzionando oppure no e poi, pragmaticamente, regoliamoci di conseguenza» 2
Tuttavia, la strada è più impervia del previsto. Le diffidenze internazionali sono evidenti: sia la prima ministra francese che la sua ministra degli Affari europei hanno ripetuto, a distanza di una settimana l’una dall’altra, che «vigileranno» sul rispetto dei diritti in Italia, mentre il portavoce del governo olandese, secondo quanto riporta La Repubblica 3, ha dato voce ai dubbi condivisi da molti partner europei: «Il punto è che noi vogliamo capire chi è Giorgia Meloni. È la leader di destra che parlava contro l’Europa o è quella più moderata che adesso sembra pronta ad accettare le regole della comunità europea? Nel secondo caso non ci saranno problemi, nel primo…». Sono dichiarazioni che hanno un peso inevitabile, soprattutto verso personalità di livello elevato con carriere internazionali alle spalle (e ancora un futuro professionale di una certa durata). È il caso di Fabio Panetta, membro del board della BCE e prima scelta di Giorgia Meloni come ministro dell’Economia: da settimane filtra il suo nome che viene tuttavia continuamente smentito proprio per una ritrosia dell’interessato, probabilmente timoroso di partecipare a un’esperienza di governo così connotata e dalla possibile breve durata. Stesso discorso può farsi per eventuali altri tecnici al ministero dell’Interno (e infatti il nome che circola è quello di Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di Matteo Salvini tra il 2018 e il 2019), agli Affari esteri o alle Riforme, se come pare il governo proverà davvero a introdurre il sistema presidenziale, e in questo caso nominare una figura tecnica potrebbe rendere il tema meno polarizzato. In assenza di nomi di primo piano, il rischio è che Meloni si trovi costretta in ogni caso a nominare dei tecnici, ma non di primo piano, come accaduto con Giovanni Tria ed Enzo Moavero Milanesi, rispettivamente ministro dell’Economia e degli Affari esteri del governo di alleanza tra Lega e Movimento 5 stelle, poco apprezzati dall’opinione pubblica e osteggiati dalla pubblica amministrazione che erano stati chiamati a guidare. In questo caso, il nervosismo degli alleati di governo sarebbe difficile da gestire: di fronte a un tecnico di assoluto valore è più semplice rinunciare a incarichi ministeriali, ma davanti a seconde file la disciplina di Lega e Forza Italia, che pretendono per sé dei ministeri di peso, non è assicurata.
Il punto, per il governo Meloni, non sono soltanto i ministeri: ciò su cui si misurerà la capacità di tecno sovranismo, cioè di tenere insieme un’agenda conservatrice sulla politica interna e una certa credibilità con l’establishment internazionale e nazionale garantita da figure inserite in questi mondi, è sui posti di alto livello amministrativo, fondamentali per gestire la macchina ministeriale. È qui che la compenetrazione tra la coalizione più a destra della storia della repubblica e la tecnocrazia sarà più visibile (o si dimostrerà fallita). Tra Palazzo Chigi e i ministeri sono circa 300 le nomine necessarie a coprire i posti apicali, in primo luogo quelli di capo di gabinetto, segreteria particolare, segreteria tecnica, capo ufficio legislativo e ufficio stampa. Già questa prima tornata di alti burocrati, in genere nominati nei primi mesi , non sarà semplice: in primo luogo perché la maggior parte dei politici di Fratelli d’Italia non ha esperienza passata né grandi relazioni nell’alta amministrazione, in secondo perché gran parte di questi profili ha lavorato proficuamente con il Partito democratico, che ha retto per la gran parte degli ultimi 10 anni la maggioranza dei ministeri. Qualche “alto papavero” legato al mondo della sinistra potrebbe evitare di “bruciarsi” collaborando con un governo considerato distante, anche a causa dei riflettori puntati su Meloni e le sue scelte. A questo va aggiunto il ruolo dei direttori generali dei dipartimenti ministeriali, nominati per tre anni e non soggetti a spoil system: la maggior parte di essi è entrata in esecutivi a partecipazione Pd, e dunque una parte delle energie dei nuovi ministri dovrà essere spesa per tessere rapporti con personale sconosciuto e in alcuni casi probabilmente prevenuto.
Queste considerazioni hanno un peso inevitabile all’interno del bunker, anche perché il cerchio ristretto di Giorgia Meloni è un affare di famiglia. Il cognato, la sorella, gli amici di gioventù. Meloni, presidente di Fratelli d’Italia e probabile prima presidente donna del Consiglio italiano, ha dato ordine di restare in silenzio. Niente festeggiamenti da parvenu della politica, niente risse sui social, niente sbrodolamenti salviniani in tv. La prima settimana di silenzio dopo il voto del 25 settembre ha creato stupore e disorientamento, anche perché ricorda il prolungato silenzio di Mario Draghi appena diventato capo del governo. Anche i suoi, tutti in silenzio. Persino i più ciarlieri. Figurarsi lo staff ristretto, quello che lo accompagna da una vita. La sua unità di crisi in servizio permanente. La portavoce Giovanna Ianniello, molto riservata, sa trattare con durezza i giornalisti, soprattutto quelli considerati non amici. Tommaso Longobardi è l’uomo dei social; diploma in Ragioneria, laurea triennale in Scienze e tecniche psicologiche, dal 2018 è il responsabile della comunicazione social di Giorgia Meloni. È la risposta al digital philosopher Luca Morisi, un tempo capo della macchina della comunicazione della Lega prima di alcune vicissitudini che lo hanno costretto a lasciare l’incarico. Longobardi viene dalla Casaleggio Associati, ha “studiato” con il fu Gianroberto Casaleggio e lo considera tutt’oggi un genio. «È stato un anno importante per me, ricordo i suoi insegnamenti: tutti i politici devono saper usare in prima persona i social, devono capire il mezzo, altrimenti non esistono, sono destinati a essere spazzati via. Aveva ragione», ha detto Longobardi in un’intervista. Sulla comunicazione, ci sono anche gli esterni: da Alessandro Giuli, ex condirettore del Foglio, il cui nome è circolato come possibile capo della comunicazione a Palazzo Chigi, e acquista forza dopo il probabile rifiuto di Andrea Bonini, giornalista di Sky sondato, senza successo, proprio per rendere la comunicazione più istituzionale, a Gennaro Sangiuliano, attuale direttore del Tg2, in decisa crescita nelle quotazioni. In quota cerchio magico c’è poi Patrizia Scurti, storica assistente di Meloni, che nel suo libro pubblicato da Rizzoli, “Io sono Giorgia”, descrive così: «La mia padrona dico spesso scherzando, perché non c’è nulla della mia vita che non passi da lei», ha scritto. E poi c’è Arianna Meloni, militante, sorella, confidente, consigliera. «Ti accompagnerò sul monte Fato a gettare quell’anello nel fuoco, come Sam con Frodo, sapendo che non è la mia storia che verrà raccontata, ma la tua, come è giusto che sia», ha scritto la sorella Arianna, moglie di Francesco Lollobrigida, capogruppo della Camera di FdI ed ex capo dell’organizzazione. Ma quali sono state le ragioni fondamentali della fascinazione della “nuova destra” verso l’opera di Tolkien? «Forse – ci dice il politologo Marco Tarchi – la sintesi più adeguata è nelle parole dell’articolo di Renato Del Ponte, che fu il primo a recensire Il Signore degli anelli in quell’ambiente (nel febbraio 1971, su “L’Italiano”, la rivista di Pino Romualdi): “Quest’opera di Tolkien è in definitiva un cosciente e responsabile ritorno alle radici ed ai simboli di un passato tradizionale, nella cui evocazione si rivela, nell’antica ed attualissima lotta di potenze oscure e luminose, una critica ed un’opposizione radicale alla civiltà industriale e tecnica che ha degradato l’uomo a semplice ‘animale casalingo’ estraniandolo dalla natura e dai suoi profondi significati”. Non va dimenticato che in quel periodo la parte del mondo giovanile missino che non si riconosceva nel culto nostalgico del fascismo era molto influenzata da Evola e da tutto ciò che riconduceva ad una metafisica della storia imperniata sul conflitto tra la Tradizione (“con la maiuscola”!) e la decadenza dell’era materialistica. Rispetto a questa impostazione la Nuova Destra operò uno strappo, ritenendo che si dovesse cercare un confronto critico con la modernità anche dall’interno, ma alcune delle tematiche tolkieniane – il radicamento nella propria terra e cultura, il coraggio, la sfida ai poteri “oscuri” di un piccolo popolo, la già citata ostilità alle conseguenze dell’industrializzazione – permasero. E la saga tolkeniana aveva un altro pregio: era una saga in cui non esistevano solo i classici Eroi invincibili: gli Hobbit davano alla lotta contro il Potere un carattere più “a misura d’uomo” (anche se con i piedi pelosi)». Non dimentichiamo, in quota cerchio magico meloniano, Chiara Colosimo, consigliera regionale adesso eletta in Parlamento. Una militante della prima ora, dicono da Fratelli d’Italia.
Quando si vince e bisogna governare, tuttavia, il cerchio magico non basta più. Attorno a Meloni spiccano alcuni politici di peso, che pur non facendo parte della “famiglia” e della sua storia militante ne hanno accompagnato i passi, e in qualche modo costruito la credibilità. Il primo è Ignazio La Russa, cofondatore del partito, ex ministro della Difesa dal 2008 al 2011, avvocato siciliano ma trapiantato a Milano, storico rappresentante del Movimento sociale e soprattutto espertissimo parlamentare (eletto ininterrottamente alla Camera dal 1992 poi passato al Senato dal 2018). Quest’ultima dote, in un gruppo composto in larghissima parte da novizi, potrebbe rivelarsi molto utile per Meloni, che a quanto sembra sta pensando per lui alla presidenza del Senato, fondamentale per limitare i rischi di una maggioranza relativamente risicata già ora (115 senatori su 200, 68 per Fdi, 29 per la Lega, 18 per Forza Italia, 2 per Noi moderati), e che dopo la nomina di qualche ministro-senatore lo diverrà ancor di più. L’altro è Raffaele Fitto, regista del percorso europeo di Meloni. Fitto ha una storia diversa rispetto al cerchio magico: giovane iscritto alla Democrazia cristiana pugliese a fine anni ottanta (per cui è stato eletto consigliere regionale in Puglia nel 1990), ha poi aderito a Forza Italia, per cui è stato presidente della regione Puglia dal 2000 al 2005, poi deputato, ministro per i Rapporti con le regioni dal 2008 al 2011, infine eurodeputato a partire dal 2014. Poco dopo la sua elezione a Strasburgo, Fitto lascia Forza Italia e aderisce al gruppo dei Conservatori europei, una posizione che si rivela fondamentale nel percorso di Giorgia Meloni. Il parlamentare europeo aderisce infatti a Fratelli d’Italia, e convince la presidente a iscrivere i propri eletti (5), al gruppo di cui fa parte, evitando con cura di accodarsi alla nuova alleanza sovranista che riunisce la Lega, il Rassemblement national e Alternative für Deutschland in Identità e Democrazia. La scelta non si motiva solo con l’intenzione di marcare una differenza e un’autonomia con Matteo Salvini, in quel momento largamente egemone nella coalizione della destra italiana grazie al 33% ottenuto alle elezioni europee, ma con la volontà di evitare di finire in un angolo anche in Europa, vista la già complicata ricerca di credibilità in ambito italiano. Il ruolo di presidente dei Conservatori europei, assunto da Meloni nel 2020, è funzionale a questa strategia, e consente alla leader di Fratelli d’Italia di tessere relazioni molto utili con il Partito repubblicano, il Partito conservatore britannico e il Likud israeliano, senza contare gli alleati in Europa, come il PiS, partito al governo in Polonia, e il Partito democratico civico, che esprime il presidente del Consiglio della Repubblica ceca. È sempre Fitto a consigliare a Meloni di evitare, tra il 2020 e il 2021, di fondere il gruppo conservatore con Identità e Democrazia, proprio per continuare nel percorso di “normalizzazione”.
Come Fitto, anche Adolfo Urso è l’uomo incaricato di gestire il lato internazionale dei rapporti politici: militante del Movimento sociale, parlamentare di Alleanza nazionale poi del Popolo delle libertà dal 1994 al 2013, è stato due volte viceministro. È senatore di Fratelli d’Italia dal 2018. Eletto presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica nel giugno 2021, l’organo di controllo dei servizi segreti italiani, Urso ha per forza di cose lavorato a stretto contatto con l’esecutivo in carica sul dossier ucraino, in particolare sull’invio di armi a Kiev, un modo per accreditare Giorgia Meloni negli Stati Uniti. Non è stato casuale il suo viaggio a Washington il 14 settembre scorso, in piena campagna elettorale, incaricato di «raccontare», come ha lui stesso dichiarato, la posizione di Fratelli d’Italia sui temi internazionali 4. Urso è anche il presidente della fondazione FareFuturo, grazie alla quale Fratelli d’Italia è entrato in contatto con il mondo repubblicano americano, come dimostra un convegno congiunto con il think tank conservatore americano International Republican Institute (Iri) nel settembre 2021. Meloni ha inoltre più volte partecipato al Cpac, la convention dei conservatori americani, ulteriore segno di vicinanza con quel mondo.
L’altro nome rilevante, nel mondo di Meloni, è Giovanbattista Fazzolari, militante di lungo corso (è iscritto al Fronte della gioventù nel 1989, a 17 anni) e senatore dal 2018. Fazzolari è figlio del diplomatico Michele Lucia, è madrelingua francese, e ha avuto una lunga carriera sia nella pubblica amministrazione locale che nelle società pubbliche della regione Lazio, oltre a essere stato il capo della Segreteria tecnica di Meloni al ministero della Gioventù, dal 2008 al 2011, e suo consigliere giuridico dal 2006 al 2008, quando Meloni è stata vicepresidente della Camera. Fazzolari ha avuto un ruolo fondamentale nella stesura del programma elettorale del partito e della coalizione con Lega e Forza Italia, è l’uomo di contatto con il governo uscente per i dossier più urgenti di politica economica e del Pnrr, e con ogni probabilità continuerà ad avere un ruolo di raccordo anche nel prossimo governo (come sottosegretario alla presidenza del Consiglio o ministro per l’Attuazione del programma). Guido Crosetto, cofondatore del partito nel 2014, da cui poi si è allontanato per andare a lavorare nel privato come presidente della Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza (AIAD) di Confindustria, è considerato l’uomo di raccordo tra Meloni e il potere italiano, in particolare con le principali società di Stato. Crosetto è stato sottosegretario alla Difesa, è spesso invitato in televisione per difendere la credibilità di Giorgia Meloni, con cui i rapporti sono stretti ma altalenanti, in virtù dell’autonomia e del carattere, molto forte, di entrambi. Proprio per questo (e per gli eventuali conflitti di interesse) non è chiaro quale ruolo avrà nell’esecutivo, ma di sicuro è una delle persone più importanti da tenere in mente. Grazie a Crosetto, anche il diplomatico Stefano Pontecorvo (ex ambasciatore italiano in Pakistan, poi rappresentante civile della Nato in Afghanistan) si è avvicinato al mondo di Giorgia Meloni. Il collegamento con Crosetto è singolare, nel senso che i due si sono conosciuti grazie alla moglie di Pontecorvo, cuneese come il cofondatore di Fratelli d’Italia; più che politico, insomma, il rapporto è personale, e ha consentito all’ex ambasciatore, a partire dal 2021, un accesso abbastanza libero a Giorgia Meloni, che ha ascoltato con attenzione i consigli di Pontecorvo sulla Nato e il rapporto Atlantico. Tra i vari consiglieri che hanno rafforzato l’atlantismo di Meloni, comunque già presente da tempo, c’è anche lui. Il diplomatico, tra i possibili nomi per gli Affari esteri, ha contribuito alla stesura del programma di politica estera a di difesa di Fratelli d’Italia. Profilo simile, anche se ancor più elevato, è quello di Giulio Terzi di Sant’Agata, ex ambasciatore a Washington e ministro degli Esteri durante il governo Monti. Terzi, iscritto al partito dal 2014 e appena eletto deputato, è ancor di più una “garanzia” per le relazioni transatlantiche, molto connesso con il mondo repubblicano e una parte della diplomazia italiana ed europea, avendo lavorato a lungo anche nelle relazioni tra la Farnesina e Bruxelles.
Ci sono poi i maestri di Giorgia Meloni. Uno di questi è Fabio Rampelli, romano, architetto. Deputato dal 2005, vicepresidente della Camera dei deputati, viene dal Fronte della Gioventù e dalla mitologica – per la storia di Meloni – sezione di Colle Oppio. Una sezione politicamente eterodossa, al punto tale che all’epoca veniva considerata persino “di sinistra”, con tutta quell’attenzione ai temi ambientali e sociali. Oggi rivendicati da Rampelli, che in un’intervista 5 ha spiegato perché lo infastidiscono tutti quei richiami al passato nero di Fratelli d’Italia. Lui risponde, ha detto, «con la mia amicizia con don Luigi Di Liegro», fondatore della Caritas diocesana di Roma, di cui è stato direttore, scomparso nel 1997: «Ero segretario del Fronte della gioventù quando un comitato dei Parioli capeggiato da due parlamentari missini cercò di assaltare il suo centro per malati di Aids a Villa Glori. Io portai tutti i ragazzi del giovanile del Msi dentro il centro, per difenderlo. Il Fdg contro il Msi…, una pagina memorabile di una gioventù che era stufa della destra becera», ha ricordato Rampelli, che negli anni Ottanta fondò insieme allo scomparso Paolo Colli l’associazione ambientalista “Fare Verde” e che in più di un’occasione ha preso posizioni divergenti rispetto al centrodestra. Come quando nel 2008 alla Camera votò contro l’articolo l’articolo 15 del Disegno di Legge Sviluppo (1441) che dava il via libera al Governo di emanare entro giugno 2009, uno o più decreti legislativi per la localizzazione in Italia di impianti di produzione elettrica nucleare, di sistemi di stoccaggio dei rifiuti radioattivi e del materiale nucleare. Ci sono però maestri più recenti. Come il filosofo Marcello Pera. Ex presidente del Senato, negli anni Novanta è stato uno dei volti del berlusconismo intellettuale, insieme ad altri professori (come Lucio Colletti, Giuliano Urbani, Giulio Tremonti). Dopo aver tentato inutilmente di romanizzare i barbari leghisti, come Matteo Salvini, che poco sembra aver ascoltato, Pera è stato avvicinato dalla giovane Meloni con l’obiettivo di realizzare la riforma presidenziale. Una riforma, ha detto Pera al mensile Tempi 6 «veramente indispensabile e indifferibile. Per capirlo, basta fare un piccolo elenco dei problemi istituzionali ancora non risolti e che costituiscono un inciampo per qualunque governo. Il bicameralismo perfetto: dobbiamo ancora tenerci due camere che fanno esattamente lo stesso lavoro, cosa unica al mondo? Il regionalismo: così come è disegnato, il riparto di competenze fra lo Stato e le Regioni è carburante che alimenta l’industria dei ricorsi alla Corte costituzionale; si può precisarlo meglio? I poteri del presidente del Consiglio: è mai possibile che non possa neppure sostituire un suo ministro, come fanno tutti i sindaci con i loro assessori? L’ordinamento giudiziario: la non separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale sono ancora un dogma? Si osservi che queste mancate riforme costano al paese in termini di efficienza, di stabilità e di bilancio. E anche di credibilità. Pensi quanto possa prenderci sul serio un ministro europeo che incontra uno dei nostri e che sa che fra un anno ne incontrerà un altro». Il dossier è dunque nelle sue mani, appena tornato in Senato con Fratelli d’Italia, che potrebbe però avere anche un ruolo di governo (si è parlato di lui per l’Istruzione).
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Note
- Sabino Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, Il Mulino, 2014
- Intervista a Giorgia Meloni, “La svolta anti ribellista di Meloni, Il Foglio, 16 gennaio 2018 https://www.ilfoglio.it/politica/2018/01/16/news/giorgia-meloni-critica-matteo-salvini-e-m5s-173223/.
- Claudio Tito, Draghi sotto torchio dai partner europei: “E ora che farà Giorgia?”, La Repubblica, 07/10/2022
- Marco Galluzzo, Urso: «Racconto agli Usa il programma di FdI. In politica estera continuità con Draghi», Corriere della Sera, 10/09/2022
- http://www.conquistedellavoro.it/breaking-news/fdi-rampelli-ombre-nere-su-meloni-ma-di-che-si-parla-br-don-di-liegro-venne-nella-sezione-colle-oppio-a-parlare-di-antirazzismo-insieme-a-noi-del-dg-1.2968202, AskaNews 12 agosto 2022
- https://www.tempi.it/elezioni-pera-la-riforma-della-costituzione-e-indispensabile-e-indifferibile/, 18/9/2022